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Indifendibile
nella sua bruttezza, pensato
e realizzato in buona fede,
goffamente appeso a un tema
altissimo, II servo
ungherese va sorbito
per rispetto alle intenzioni,
o sbeffeggiato per l'abisso
tra intenzioni e risultati?
Il Grande Tema è
nientemeno che il lager,
e visto per di più
dalla parte dei carnefici,
attraverso la (parziale)
presa di coscienza del direttore
di un campo di sterminio.
Il comandante Dailermann
(Arana)
e sua moglie (Conti),
a contatto col "servo
ungherese" (ed ebreo)
del titolo (Renzi),
prigioniero addetto alle
pulizie e cultore d'arte,
scopriranno per via estetica
che anche gli ebrei hanno
un'anima e che l'arte vera
è proprio quella
"degenerata" che
il regime nazista osteggia.
L'idea di affrontare il
nodo del rapporto tra arte
e abominio nazista non era
così peregrina. Ma
il film stesso incarna l'op- |
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posto
degli ideali estetici che
declama. La messinscena
è una micidiale mistura
di teatro tradizionale e
Tv, col peggio di entrambe.
Dialoghi fluviali e didascalici
(e ogni bella frase sottolineata
dall'arrivo della musica),
un paio di scene assolutamente
"scult" (Renzi
che declama Brecht al nazista
Impaurito, pestaggi a suon
di Rossini stile drughi),
inverosimiglianze che non
sono stranianti ma solo
confuse (mai visti ospiti
di lager così pasciuti).
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Emiliano
Morreale (Film TV) |
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