Il penultimo film
di Kim Ki-duk, girato
dopo “Primavera,
estate…”
(premio della giuria
giovanile al 56°
Festival di Locarno)
ma prima di “Ferro
3” (vincitore
di un Leone al 61°
Festival di Venezia)
ha meritatamente ottenuto
l’Orso d’Argento
(miglior regia) al
Festival di Berlino
lo scorso anno ed
è prodotto
dallo stesso Kim.
Da noi arriva in ritardo
sulla scia del gran
successo di critica
e di pubblico, nonché
dell’acclamazione
a livello internazionale,
dei due film precedentemente
visti. Tre lavori
diversissimi, tre
opere magnifiche.
Permeato di cristianesimo
e di buddismo, “La
Samaritana”
(che in confronto
agli altri concede
meno ai nostri occhi,
qui si vede meno il
grande amore del regista
per la pittura) si
caratterizza prima
di tutto per la completa
assenza di morbosità,
assenza di scene che
mettano lo spettatore
in
in
imbarazzo
(neanche
una
sequenza
che
mostri
attività
sessuali!):
nessun
sensazionalismo
ma grande
delicatezza,
discrezione,
pudicizia.
Trama
come
sempre
surreale
e paradossale
(ma
meno
visionaria
del
solito),
personaggi
di difficile
interpretazione,
messaggi
del
tutto
originali,
leggerezza
e profondità:
qui
l’argomento
è
particolarmente
scabroso
(si
parla
di minorenni
che
si prostituiscono)
e ci
si chiede
cosa
avrebbe
fatto
un nostro
regista con
tale materiale
in mano. Scioccata
dalla morte
della sua
migliore amica,
la protagonista
di nome Yeo-jin
(che vive
felicemente
e serenamente
con il padre)
si prostituisce
come lei e
con gli stessi
clienti: ma
invece di
farsi pagare
restituisce
loro i soldi.
Il padre lo
viene a sapere
ma non riesce
a colpevolizzarla
direttamente:
si vendica
con gli uomini
che sono stati
con la ragazza.
Yeo-jiin sogna,
e nel sonno
vede suo padre
che la strangola,
poi la butta
in una buca
da lui scavata,
le mette le
cuffiette
del walkman
e la seppellisce.
Cosa ci ha
voluto trasmettere
il regista
coreano con
tutto ciò?
Mostrarci
l’innocenza
nascosta nei
cuori dei
suoi personaggi?
Analizzare
i giovani
di oggi, così
affamati di
esperienze?
Illustrare
l’incontro-scontro
tra pedofilia
e amore paterno,
tra sesso
e senso di
colpa? Affermare
che la nostra
è un’epoca
in cui non
abbiamo bisogno
di uno scopo
preciso per
vivere, che
nella realtà
in cui ci
troviamo non
ci sono né
un motivo
né
un tempo per
voltarsi a
capire quando
le cose hanno
cominciato
ad andare
male? Sottolineare
il divario
tra le diverse
generazioni,
la loro incomunicabilità?
Raccontare
semplicemente
una storia
d’amore
e di violenza?
Probabilmente
tutto questo
e altro ancora.
L’elenco,
come sempre
nei film di
Kim Ki-duk,
potrebbe continuare
e ogni spettatore
vedrà
nel film cose
diversissime
(vojeurismo,
dolore e disperazione,
meditazione,
perversione
piccolo-borghese,
dissoluzione
dei rapporti
umani…),
cose da accettare
o rifiutare:
restando però
sempre affascinato
da quanto
vede e da
quanto uno
dei migliori
registi oggi
in circolazione
gli fa percepire.