Tutto il giovane cinema
italiano a raccolta.
Dopo una carriera
spesa a cercare un’identità
autoriale evidentemente
inesistente saltando
da un genere all’altro
con apparente disinvoltura,
dopo aver fatto ridere
mezza mostra di Venezia
lo scorso anno con
“Ovunque sei”,
stavolta Michele Placido
ha voluto andare sul
sicuro e se li è
pigliati tutti: Pierfrancesco
Favino, Kim Rossi
Stuart, Claudio Santamaria,
Stefano Accorsi, Riccardo
Scamarcio, Anna Mouglalis,
Jasmine Trinca. Tutti
belli, tutti fascinosi,
tutti molto glamour,
molto “Seventies”,
tutti molto maledetti
con le loro vite al
limite, le facce sporche,
le mani insanguinate,
la strada, i modi
spicci, la parlata
da “borgatari
de’ Roma”.
E quel che più
conta tutti molto
bravi. Una gioia soprattutto
per il pubblico femminile
che in sala sospira
ad ogni inquadratura
di uno dei “belloni
de
noantri”
ripreso
in controluce,
con
gli
occhiali
scuri
e i
capelli
spettinati,
come
se stesse
guardando,
che
so,
“Ocean’s
eleven”.
Non
c’è
nulla
di male
a giocare
un po’
al divismo.
Anzi.
Ci siamo
stufati
di un
cinema
italiano
triste,
impaludato
in introspezioni,
psicologismi,
drammi
esistenziali
piccolo-borghesi
popolati
da casalinghe
coi
capelli
scarmigliati
raccolti
in crocchie
dolenti.
Finalmente
un film
italiano
che
che
non sembra
un film italiano,
un film italiano
in cui, incredibile
a dirsi, ci
sono le star!!!
E tante. E
Italiane.
Non è
così
che dovrebbe
essere il
cinema? Il
sogno, lo
spettacolo,
lo charme,
il sex appeal.
Invece noi
voliamo costantemente
bassi, timorosi
di osare,
di apparire,
di essere
accusati di
superficialità
e quindi,
chissà!?!,
di non ottenere
poi le sovvenzioni
statali…
perché
è credenza
diffusa che
un film di
interesse
culturale
debba essere
per forza
un film grigio
e noioso,
con Luigi
lo Cascio
in giacca
e cravatta.
Invece “Romanzo
criminale”
dimostra l’esatto
contrario
con l’evidenza
di un assioma
matematico.
Ripeto: non
c’è
nulla di male
nel divismo.
Anzi. Soprattutto
se, come in
questo caso,
il divismo
non è
fine a se
stesso ma
è pervaso
dal pathos,
dall’impegno,
dal romanticismo,
dalla storia.
Il Libanese
(Favino, rabbioso
e risoluto),
il Freddo
(Rossi Stuart,
romantico
e idealista),
il Dandi (Santamaria,
vigliacco
e opportunista).
Sono loro
i protagonisti
di questo
film corale
tratto dal
romanzo omonimo
di Giancarlo
De Cataldo
che, come
è stato
detto, è
una peggio
gioventù
che ripercorre
quindici anni
di storia
italiana attraverso
alcune delle
imprese che
tra gli anni
’70
e ’80
resero tristemente
famosa la
cosiddetta
banda della
Magliana.
E nel raccontare
le singole
vicende dei
singoli protagonisti
e la tenace
lotta del
commissario
Scialoja (Accorsi,
d’obbligo
quando c’è
da interpretare
un bolognese)
contro un
nemico più
grande di
lui, al ritmo
di una colonna
sonora composta
dalle migliori
hit dell’epoca
nazionali
e internazionali,
Placido è
bravo a far
irrompere
nel tessuto
narrativo
fulminei squarci
di realtà,
a far convivere
la dimensione
della favola
con quella
della tragedia,
a instillare
dubbi, a suggerire
sospetti,
a rievocare
scheletri
nell’armadio,
a gettare
distrattamente
un piccolo
fascio di
luce dentro
le impenetrabili
stanze dove
si celano
inquietanti
e insospettabili
segreti di
Stato.