THE RING 2
 

the ring 2 recensione

 
Torna, tre anni dopo il catalizzante esordio, il film che, in qualità di padrino, ha dato i natali a molte produzioni horror dal 2002 a questa parte e lo fa, non senza un pizzico di rammarico, dimenticando i dettami che lo resero, allora, la pellicola più impressionante ed innovativa dell’intera stagione. Fresco di cambio al timone di regia ma consolidato nell’accoppiata protagonista, una delle più attese produzioni Dreamwork in questo 2005 riscuoterà, indubbiamente, un enorme successo ai botteghini, lasciando, tuttavia, più di una perplessità circa vie e maniere. Hideo Nakata, firma dei primi due sigilli dell’originale trilogia nipponica, Ringu, e tra breve in sala con Dark Water, anch’esso remake di una sua pellicola made in sol levante, "Acqua Scura", stravolge eccessivamente il copione dell’originale, facendo rimpiangere le atmosfere dark e la  
 
suspence perdurante del film di Verbinski datato tre primavere or sono. Il plot narra, in maniera a volte troppo prevedibile, la genesi del rancore che sta alla base dei sentimenti ambigui di Samara e racconta, neanche troppo limpidamente, la storia infantile di questa fanciulla marchiata dal destino e voluttuosa di cercare, seppur sotto forma di spirito, nient’altro che tutto ciò che le fu negato: una vita norma-  
le. Nonostante l’intelligente spunto argomentativo, ne risulta una pellicola fiacca e spenta, troppo spesso alla ricerca di esagerazioni forzate e troppo insistentemente dipendente dal successo di tre anni addietro; battute riciclate ed utilizzo di un pathos già conosciuto per essere tale, conferiscono a questa produzione l’etichetta di film potenzialmente valido ma attualizzato con troppa sufficienza. Nakata in regia può essere considerato il vero artefice di questa incomprensione; artista nipponico di buon livello non ha saputo confarsi alle platee occidentali, proponendo un cinema troppo lento e quindi assolutamente inconciliabile con l’immaginario collettivo d’occaso. Non che quest’ultimo significhi, per forza di cose, garanzia di qualità superiore, anzi, ma neppure basta come giustifica ad un’errata ricognizione d’intenti. Per concludere, oltre alla scelta discutibile di sfruttare soltanto in parte un soggetto discreto e all’utilizzo assai opinabile della cinepresa, è doveroso, tuttavia, riconoscere ampio merito alla coppia di attori protagonisti; ad una sempre più matura e solare Naomi Watts fa da contr’altare la recitazione gelida e perfetta di David Dorfman (The Ring e Non aprite quella porta), sempre più stella di prim’ordine, insieme con Dakota Fanning, nell’entourage dei bimbi prodigio che, dai tempi lontani di Shirley Temple, popolano l’universo filmico.

(di Marco Visigalli)
 
 
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