LE RICAMATRICI
 

recensione le ricamatrici

 
La Francia è sempre molto delicata verso i propri figli; anche quando è chiamata a fare da sostrato ad una vicenda di sua natura cruda, lo fa con tocco delicato, quasi a voler sfumare una lacrima per mezzo di un effimero battito di ciglia. La Germania distorcerebbe il contesto con l’ausilio di una scenografia greve; in Inghilterra si cercherebbe una soluzione più acida; in Spagna un pizzico di morbosità appesantirebbe una trama già di per se stessa impegnativa; in Italia, infine, si opterebbe per una spettacolarizzazione possibilmente mass-mediale (pare che l’ultima moda sia proprio questa). Fortunatamente, invece, Le Ricamatrici, dell’esordiente Eleonore Faucher, è francese sino al midollo. Storia di Claire (Lola Naymark), diciassettenne indipendente che deve affrontare una gravidanza imprevista e che, dopo aver  
 
fatto la conoscenza della signora Melikian (Ariane Ascaride), nella cui bottega di ricamo viene assunta, troverà il modo di confrontarsi con qualcuno che, come lei, vive nella sofferenza e, giorno dopo giorno, ricamo dopo ricamo, imparerà ad accettare quello che, fino a quell’istante, aveva mascherato dietro ad un crogiuolo di mille paure ansanti. Il film, costruito attraverso una sceneggiatura lineare e grazie all’utilizzo di una fotografia pulita, è la storia di un percorso, di una crescita; di un’emancipazione che, a tappe, sfocia nella piena coscienza della vita in grembo come rinascita, come atto unico. Claire passa dall’essere fanciulla timida e grigia al divenire donna cosciente, capace d’amare di nuovo e soprattutto in grado di accettare quell’altro che porta con sé che è, in primis, accettare se stessa. Grazie ad un rapporto che nasce quasi per caso con una donna affranta dalla perdita di un figlio; ritratto di signora dall’animo logoro ma dalla volontà ferrea (però inevitabilmente umana), la Melikian si rivela pronta a combattere anche se costretta, soltanto in un primo istante, a cedere il passo alla morte dell’anima. Le Ricamatrici, dunque, è anche storia d’incontro di due anime in cerca di un rifugio; riparo fino a quel momento celato o forse soltanto negato dalla propria ostinata consapevolezza di un corso eventuale impossibile da deviare; fonte di salvezza, infine, alla quale volgersi insieme, senza pretesa ma consapevoli: questo si. Pastiche di emozioni uguali e diverse, la pellicola è segnata dall’egida del ricamo. Metafora sottile della fermezza (anche) nel dubbio, permea gli ’88 minuti, conferendo allo spettatore l’idea di come (molto spesso) nelle proprie passioni risieda la tanto attesa “oasi nel deserto” e di come dalle stesse possa alimentarsi, inaspettata (e di nuovo), la fiamma quasi sopita della propria esistenza in cammino. (di Marco Visigalli)


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