fatto
la conoscenza
della signora
Melikian (Ariane
Ascaride),
nella cui
bottega di
ricamo viene
assunta, troverà
il modo di
confrontarsi
con qualcuno
che, come
lei, vive
nella sofferenza
e, giorno
dopo giorno,
ricamo dopo
ricamo, imparerà
ad accettare
quello che,
fino a quell’istante,
aveva mascherato
dietro ad
un crogiuolo
di mille paure
ansanti. Il
film, costruito
attraverso
una sceneggiatura
lineare e
grazie all’utilizzo
di una fotografia
pulita, è
la storia
di un percorso,
di una crescita;
di un’emancipazione
che, a tappe,
sfocia nella
piena coscienza
della vita
in grembo
come rinascita,
come atto
unico. Claire
passa dall’essere
fanciulla
timida e grigia
al divenire
donna cosciente,
capace d’amare
di nuovo e
soprattutto
in grado di
accettare
quell’altro
che porta
con sé
che è,
in primis,
accettare
se stessa.
Grazie ad
un rapporto
che nasce
quasi per
caso con una
donna affranta
dalla perdita
di un figlio;
ritratto di
signora dall’animo
logoro ma
dalla volontà
ferrea (però
inevitabilmente
umana), la
Melikian si
rivela pronta
a combattere
anche se costretta,
soltanto in
un primo istante,
a cedere il
passo alla
morte dell’anima.
Le Ricamatrici,
dunque, è
anche storia
d’incontro
di due anime
in cerca di
un rifugio;
riparo fino
a quel momento
celato o forse
soltanto negato
dalla propria
ostinata consapevolezza
di un corso
eventuale
impossibile
da deviare;
fonte di salvezza,
infine, alla
quale volgersi
insieme, senza
pretesa ma
consapevoli:
questo si.
Pastiche di
emozioni uguali
e diverse,
la pellicola
è segnata
dall’egida
del ricamo.
Metafora sottile
della fermezza
(anche) nel
dubbio, permea
gli ’88
minuti, conferendo
allo spettatore
l’idea
di come (molto
spesso) nelle
proprie passioni
risieda la
tanto attesa
“oasi
nel deserto”
e di come
dalle stesse
possa alimentarsi,
inaspettata
(e di nuovo),
la fiamma
quasi sopita
della propria
esistenza
in cammino.
(di Marco
Visigalli)
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