Delitto e castigo
nella Roma fascista
del 1938, dove il
giovane Raul, neo-laureato
in legge, pensa al
delitto perfetto,
non per fame né
per giustizia, in
un mondo che non conosce
giustizia, ma per
affermare la propria
volontà. Liberamente
tratta dal celebre
romanzo di Dostoevski,
scritta una trentina
d’anni fa da
Suso Cecchi D’Amico
per Mauro Bolognini,
l’opera prima
del nipote Andrea
(nonché ultima
apparizione di Laura
Betti su grande schermo)
funziona perfettamente
nella sua componente,
chiamiamola così,
“gialla”,
e cioè durante
la prima parte dedicata
all’omicidio,
quando il regista
dimostra di avere
letto Hitchcock e
di saper bene padroneggiare
i registri espressivi
del genere: i meccanismi
della suspance, la
cura del dettaglio,
il come dilatare un’emozione
nel tempo, l’imprevisto
e il depistaggio psicologico.
Valga per tutte
la
sequenza
dell’imbianchino,
applicazione
da manuale
del
famoso
esempio
hitckcockiano
del
grosso
cane
sulla
scala.
Viziato
anche
da una
sceneggiatura
datata
che
non
fa nulla
per
nasconderlo
e da
talune
interpretazioni
che
sembrano
affidarsi
talvolta
ad un
manierismo
un po’
sopra
le righe
(Giannini
che
boccheggia
platealmente
nel
salone
del
palazzo
di Giustizia
fumando
una
sigaretta),
il film
funziona
decisa-
mente
peggio quando
all’azione
si sostituisce
l’indagine
filosofica,
quando tenta
cioè
di tradurre
in termini
cinematografici
i temi dostoevskiani
del superuomo
e della conseguente
giustificazione
dell’omicidio,
temi troppo
pretenziosi,
trattati in
modo troppo
sommario e
incerto, come
se già
in partenza
il regista
avesse ben
chiaro alcune
dinamiche
del film cui
dare rilevanza
e meno altre
che, a volerlo,
avrebbero
meritato ben
altro approfondimento,
e invece sono
rimaste lì
a galleggiare
in una no
man’s
land difficilmente
circoscrivibile.
Del resto
già
lo stesso
Hitchckock
davanti a
Delitto e
castigo aveva
declinato
l’invito
a realizzarne
un film, ritenendola
opera troppo
importante,
ambiziosa
e personale.
No, alla filosofia
niciana preferiamo
la psicologia
junghiana
(in questo
caso s’intende),
il senso di
colpa che
perseguita
il protagonista,
gli incubi
inconsci che
non lo fanno
dormire, le
mille pieghe
introspettive
che paradossalmente
lo spingono
proprio là
dove non vorrebbe
ma dove tutti
già
lo attendono,
la resa conclusiva
che non è
che l’amara
considerazione
che solo i
grandi uomini
non hanno
scrupoli mentre
ai giusti,
o semplicemente
a quelli di
cuore, il
destino riserva
solo dolori
e miserie.
E che se l’amore
può
salvarci da
lui non possiamo
comunque pretendere
miracoli.