"In ostaggio"
vorrebbe essere un
thriller psicologico.
Del thriller ha poco
se si esclude il soggetto:
il rapimento del facoltoso
Wayne Hayes (Redford)
da parte di un criminale
per frustrazione,
Arnold (Dafoe), i
messaggi più
o meno in codice,
le trattative per
il riscatto, la consegna
del denaro, l'insediamento
in casa degli agenti
dell'Fbi, l'angoscia
moderata della moglie
dello scomparso (Mirren).
Per fregiarsi dell'aggettivo
"psicologico"
sarebbe il caso che
i personaggi fossero
stati sottoposti ad
un qualche scavo,
se non profondissimo
almeno che arrivi
a cinque o sei centimetri
dalla superficie dei
tipi e dei ruoli acquisiti
e messi in naftalina
da milioni fotogrammi
pregressi. I 91 minuti
del film sono distribuiti
in un falso montaggio
parallelo tra le pene
famliari di chi aspetta
il rilascio dell'ostaggio
e un inaccettabile
sequestro trekking
in mez-
zo
ai boschi,
con
pediluvi
nei
ruscelli
e confidenze
inopportune:
la sindrome
di Stoccolma
si trasforma
nel
girotondo
di Cip
e Ciop.
L'inconsistenza
drammaturgica
denuncia
la totale
inesperienza
dello
sceneggiatore
debuttante
Justin
Haythe
e la
ripetizione
all'infinito
dei
primissimi
piani
(Redford
ne esce
triturato)
mostra
l'insipienza
del
regista
esordiente
Brugge
(produttore
di Insider,
Bulworth,
Heat, Glory).
Forse su quei
set andava
il cugino.
(di Enrico
Magrelli -
Film TV)