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recensione ora
e per sempre
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4 Maggio 1949, ore
17:05: in una plumbea
domenica primaverile,
il Grande Torino di
Bagicalupo e Menti,
di Gabetto e Maroso,
di Grava, dei Ballarin
e del capitano Valentino
Mazzola, spinto dal
destino, entra per
sempre nella leggenda,
valicandone l’adito
principale e scordando
volutamente di chiuderlo,
con la volontà
di lasciare in eterno
disserrato il lucchetto
della memoria collettiva.
È questo il
sostrato che permea
i 108’ minuti
dell’ultimo
film di Vincenzo Verdecchi,
regista romano alla
sua quinta firma dopo
una carriera decennale
spesa tra cabina di
montaggio (“Il
Sospetto” di
Maselli), documentari
e fiction televisive.
Una produzione, quest’ultima,
che si gioca su un
intreccio molto sofisticato
ma delicatamente elaborato,
attraverso lo sfruttamento
a 360 gradi dello
spazio e l’utilizzo
dell’inconscio
di Felliniana memo- |
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ria.
La memoria,
per l’appunto,
rappresenta
il fulcro
nodale da
cui si dipartono
e a cui ritornano
tutte le situazioni
che vengono
a costituire
l’ossatura
del film.
Erroneamente
e troppo precipitosamente
salutato dal
pubblico come
una dedicazione
al Grande
Torino, che
calcò
vittoriosamente
i prati di
mezz’Europa
nei primi
anni del dopoguerra,
la pellicola
rappresenta
in realtà
un intreccio
di diverse
storie tra
gli anni ’40
e ’90,
aventi come
scenario di
base quella
cupa Torino,
figlia del
suo passato
che sembra
non voler
svanire. Grazie
anche ad un
cast molto
ben assortito
(Pietro Abbrescia,
Giorgio Albertazzi
e Luciano
Scarpa in
primis), il
tutto viene
sapientemente
raccontato
da un narratore
onniscente
che crea una
difficile
saldatura
tra materia
ante e post,
attraverso
l’uso
della memoria
e grazie all’utilizzo
di innumerevoli
oggetti e
ricordi in
un primo momento
di arduo assemblaggio
ma che successivamente
vengono a
collimare,
costituendo
un mosaico
perfettamente
indissolubile.
Al centro
di queste
storie, storicamente
distanti ma
spiritualmente
vicine, una
tromba: quella
storica che
dalle gradinate
del Filadelfia
veniva suonata
ogni qual
volta il magico
Toro sentiva
l’esigenza
di uno sprone
verso il trionfo.
Una tromba
che, una volta
riscoperta
dopo anni
di silenzio,
riprende a
suonare soavemente
e che, con
le sue note,
sembra volerci
mettere di
fronte al
fatto compiuto
di come spesso
e volentieri
ciò
che all’apparenza
risulta così
inafferrabile
è in
realtà
più
vicino di
quanto si
possa immaginare.
Una tromba
che, metaforicamente
parlando,
si pone tra
il passato
che non vuole
(e non deve)
morire e il
presente che
su questo
passato si
plasma e con
questo passato
interagisce
in ogni suo
istante. Un’allegoria
di come la
memoria debba
sopravvivere
per continuare
il suo decorso
naturale;
come il Grande
Torino: ora
e per sempre.
(di Marco
Visigalli)
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