LE PAGINE DELLA NOSTRA VITA
 

- recensione -

 
Sincero e strappalacrime ma senza scadere nell’eccessiva e banalizzante retorica melò. Questo in summa il nuovo lavoro di Nick Cassavetes, vero e proprio rampollo d’arte, proveniente da una famiglia di attori e registi, nella quale spiccano in primis la madre Gena Rowlands e il padre John, cineasta indipendente, attivo dall’ inizio degli anni ’60 a metà degli ’80 (Ombre, Minnie & Moskowitz, Love Streams). La piece è l’adattamento dell’omonimo romanzo di Nicholas Sparks al quale Cassavetes si rifà abbastanza fedelmente, dilatandone tuttavia diverse sezioni narrative. La vicenda è la ricostruzione a posteriori che un racconto di memorie fa della combattuta vicenda amorosa tra Noah, squattrinato falegname del Sud ed Allie, orgoglio di un’aristocratica famiglia di possidenti terrieri. La vicenda è anche la storia di un amore difficile, sbocciato in  
 
una calda vacanza estiva ma destinato a resistere negli anni alle prove più ardue: all’ostilità della morale benpensante, all’addio obbligato dalle circostanze, alla guerra, al tempo e al logorio interiore e fisico. Il tutto trasposto ai giorni nostri, per mezzo del racconto che un ormai vecchio e malato Noah fa alla moglie Allie, segnata da una forma devastante di demenza senile, nella speranza di riportare a galla dall’inconscio profondo la loro essenza (per mezzo dei ricordi). L’originalità del soggetto consiste proprio nella scelta di porre come motore del plot non tanto la storia d’amore, che ne avrebbe altrimenti fatto una versione alleggerita di 'Via col vento', ma le conseguenze dell’amore stesso. Proprio quando lo spettatore è convinto di assistere all’ennesima (e datata) pellicola pregna del più banale sentimentalismo, l’irrompere del futuro nel presente spezza i legami con il consueto lieto-fine, per regalare, invece, una nuova vicenda. Ed è a questo punto che viene portato a galla il lato altro della medaglia che contrappone, sempre attraverso un uso sapiente e contraddittorio del tempo della narrazione (ecco il tocco del regista), all’esito scontato della storia nella storia un impetuoso crescendo dell’imprevedibilità narrativa della Vita, riflesso consequenziale dell’inatteso dilatarsi spazio temporale ad essa dedicatole. Come chiusa di questo iter, velato dietro ad un’apparente banalità (la vera pecca della 35 mm è infatti quella di svelarsi troppo delicatamente all’occhio dello spettatore inesperto) si stagliano sullo schermo la sequenza della cena prima e il piano americano che chiude l’ultima scena poi. Amor vicit omnia? La risposta di Cassavetes è: forse. Sicuramente, però, pare valga la pena crederci.
(di Marco Visigalli)

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