Il salotto buono del
padre-padrone, isterico
manager afflitto da
superlavoro e da immotivata
gelosia, è
viscontiano. La moglie
(la protagonista,
che ricorda in flashback
la storia del suo
matrimonio e che viene
da una classe più
bassa e più
gentile) veste sempre
in sovratono, un po'
troppo attillata,
un po' troppo colorata;
la figlia snob invece,
prima di fuggire dicasa,
solo in tenui scozzesi
Burberry. In casa
del nonno montanaro
e generoso, tutti
indossano grossi maglioni
fatti a mano con abeti,
renne, cavalli casette;
e gomitoli e ferri
da calza disposti
in non casuale disordine
restano a ricordare
giorni migliori quando
la casa è stata
abbandonata da tempo.
Un solitario eremita
dipinge icone dal
fondo dorato; i ragazzi
riuniti a recitare
passi del Vangelo
hanno tutti occhi
febbricitanti; la
natura dilaga in un'invadente
ravvicinata bellezza,
fiori
insetti,
fili
d'erba,
acqua
che
scorre,
foglie
arrossate'
neve
che
consola,
sentieri
accidentati
che
ti conducono
all'incontro
del
destino'
cui
aspira
il tuo
cuore.
«L'aspetta
qualcuno?»,
chiede
il pittore
alla
sconosciuta
che
piomba
nella
sua
baita.
«No»,
risponde
lei
un po'
seccata
«Allora
qualcuno
la insegue»,
afferma
lui
con
l'autorità
di colui
che
sa.
Scambio
di battute
imbarazzante,
come
quasi
tutte
quelle
di
Nel
mio amore,
primo lungometraggio
di finzione
di Susanna
Tamaro (che
negli anni
'80 diresse
documentari
naturalistici),
nel quale
la scrittrice
spande "poesia"
e "arte"
a piene mani
e ai quattro
venti, senza
accorgersi
forse di navigare
nelle acque
insidiose
del kitsch
cinematografico,
non quello
esibito ed
esaltato,
ma quello
finto-raffinato,
trattenuto,
sentenzioso.
Sceneggiatura
affastellata,
ritmo salmondiante,
recitazione
da soap (sì,
anche Licia
Maglietta).
(di Emanuela
Martini -
Film TV)