NATURAL CITY
 

recensione natural city

 
Domanda al regista: “Le ci sono voluti cinque anni per tornare al grande schermo…” Risposta: “…persino cinque anni non sono sufficienti a fare un buon film.” Profeta in patria: ti diamo ragione. Questi cinque anni non ti son bastati. Volando basso, Natural City si propone come la risposta orientale (concezione, lavorazione pre/post e realizzazione sono state interamente affidate all’industria cinematografica coreana) allo strapotere delle major hollywoodiane in materia di mega-produzioni. E su questo niente da dire, fa centro. Volando alto invece lo slogan che accompagna il lungometraggio, recita: Finisce l’era di Blade Runner, inizia il mito di Natural City. Agli spettatori l’ultima parola. A me, una sola e semplice constatazione: richiamate Dekard-Harrison Ford in servizio, per favore. La storia si srotola nel futuro dove uomini e cyborg (dotati  
 
di vite a termine) vivono una lotta senza pari per il predominio. Le ricerche biotecnologiche sono arrivate a livelli (ini)immaginabili e le fantasie perverse e affascinanti di Giger sono realtà. Sono le macchine però a rivendicare l’allungamento della propria esistenza ricercando dna umano compatibile. L’intento è d’impiantare nel cervello dell’ospite il proprio chip neuronico. I robot vogliono durare quel poco di più che fa la  
differenza. Le forze dell'ordine resistono e cacciano senza sosta i nemici androidi ma un poliziotto innamorato mina il sistema. Non manca d’interpellare lo scienziato pazzo (versione umana dei disegni manga di Leji Matsumoto e per quelli che non lo sapessero si tratta del creatore di Capitan Harlock, il pirata dello spazio che tanto ha fatto sospirare noi donzelle) e di salvare la fanciulla artificiale della quale s’è invaghito. Il risultato di quest’amalgama fantascientifico è un film di serie b girato con mezzi di serie a. Tanto di cappello agli esecutori dell’immane lavoro scenografico, di post-produzione e effetti visivi ma al di là dell’appellativo fumettone la sottoscritta non s’azzarda ad andare, pena l’autoinsulto. Dopo una prima parte nella quale tiene, sempre che si sopportino i dialoghi scritti e recitati nella peggior tradizione yankee, si approda arrancando alla seconda dove la trama si sdilinquisce melensa e s’avvia verso lo strombazzato finale: un pannello col pulsante per l’autodistruzione non si nega a nessuno. Giocattolone per tredicenni e adulti consapevoli. Una preghiera: smettiamola di scomodare titoli entrati nell’immaginario cinematografico per convincerci a riempire le sale, chè poi uno ci vuole credere e non sa con chi prendersela dopo essersi sorbito l’amaro - e costoso - calice.
(di Daniela Losini)
 
 
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