A quattro anni di
distanza dall’ultima
pellicola e a dieci
da quella sconvolgente
d’esordio, 'Doom
Generation' (1994),
Gregg Araki, regista
statunitense e per
parecchi anni imprescindibile
punto di riferimento
dell’intero
cinema indipendente
a basso costo, torna
a farsi sentire con
la medesima onda d’urto
che ne ha caratterizzato
il suo precedente
curriculum cinematografico.
Abituato a trasporre
sullo schermo storie
di ordinaria degenerazione,
anche in questo film,
tratto da un romanzo
di Scott Heim, Araki
decide di affrontare
un tema tanto scottante
quanto delicato come
quello della pedofilia.
Ma se con una pellicola
come 'The Woodsman'
(2005) la regista
Nicole Kassel ci aveva
messo di fronte al
dramma personale di
un uomo alla riscoperta
di se, in “Mysterious
Skin” la compassionevole
ricerca del perdono
lascia
spazio
all’irruente
violenza
delle
conseguenze
che
un’esperienza
pederasta
può
lasciare
nel
corso
di una
vita;
il tutto
novellato
attraverso
il racconto
dell’adolescenza
di due
ragazzi
(Neil
e Brian)
tanto
diversi
nel
quotidiano
quanto
similmente
legati
da un’infanzia
difficoltosa
che,
in maniera
differente,
ne ha
aspramente
influenzato
il decorso
esistenziale.
Sempre
fedele
alla
propria
vena
di osservatore
tout
court, intriso
di un tocco
narrativo
spiccatamente
Godardiano
e molto attento
a particolari
giochi di
luce e d’ombra,
anche in questa
produzione,
così
come nelle
precedenti
tre, Araki
ci trascina
nel vorticoso
e livido substrato
sociale che
permea e mina
l’apparente
solidità
del microcosmo
evolutivo
di cui tutti
siamo protagonisti
obbligati.
Solamente
la genialità
grottesca
del regista
e l’utilizzo
di una narrazione
che gioca
su continui
salti temporali
e spaziali
permettono
d’imbastire
con cruda
sapienza una
matassa talmente
arroventata
senza scadere
nella più
provinciale
banalità
inquisitoria
; nulla è
celato all’occhio
dello spettatore
ma, grazie
ad un sapiente
gioco di angolature
e ad un utilizzo
sfocato della
pellicola
nelle scene
evocative,
tutto viene
lasciato intendere
in maniera
lapalissiana
ma mediata.
Al centro
dell’intreccio
l’ambiguo
gioco d’intenti
e contraddizioni
su tematiche
standardizzate,
come ad esempio
la rievocazione
degli alieni
da intendersi
non tanto
come “Creature
sconosciute”
ma come “Realtà
aliena”,
la ricognizione
di contesti,
quali il Natale,
a significati
altri e l’elaborazione
di un finale
tanto sospeso
ed amaro quanto
vero e fortemente
umano, grazie
all’utilizzo
della voce
fuoricampo
di Neil che
ricorda come
sia impossibile
cercare di
cancellare
il passato,
per quanto
ci si possa
sforzare a
rimuoverlo
dall’anticamera
dell’esperienza.
(di Marco
Visigalli)