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German Kral, il regista,
è argentino.
Il luogo in cui questo
Buena Vista Social
Club Remix si svolge
è ovviamente
Cuba. Ricordate cosa
successe l’ultima
volta che un argentino
arrivò all’Havana?
La rivoluzione, esatto.
Qui al massimo possiamo
parlare di un compromesso
storico in salsa riformista.
L’idea di Wim
Wenders, qui produttore
esecutivo, è
buona. Come a Pio
Leiva, un produttore
intraprendente aveva
proposto al regista
tedesco il documentario
'I figli di Buena
Vista' sulle ultime
generazioni di musicisti
cubani. E Wim, coerente
con la storia sottopostagli,
lo ha riproposto a
un suo allievo dell’Università
di Monaco, il devoto
e capace German Kral,
appunto. Se la cava
bene. Di fronte alla
difficile sfida con
la bella prova del
maestro opera la scelta
più opportuna.
Non cerca di stravolgerne
il senso o di sfidarlo,
piuttosto si mette
sulla scia, |
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reinterpretandolo
quel tanto
che gli consentisse
di dare un
tocco più
personale
e moderno.
La storia
è semplice.
Un tassista
sfacciato
e con velleità
artistico-
imprenditoriali
ha la fortuna
di caricare
un Pio Leiva-
eroe della
musica cubana
tradizionale
e tra le colonne
del Buena
Vista- in
enorme ritardo.
Gli espone
il suo progetto
di mettere
in piedi una
sorta di band-
orchestra
a più
voci con i
nuovi talenti
dell’isola,
quelli ancora
sconosciuti
al grande
pubblico ma
non ai cubani.
Prima scettico,
Leiva man
mano si fa
conquistare
dal tour in
un’Havana
gioiosa e
solarmente
underground
che il suo
istrionico
e vistoso
autista- impresario
gli impone.
Decide di
partecipare
a questo progetto.
E si apre
una finestra
sulla nuova
Cuba, su quella
musica che
sa dare gioia
e seduce e
non si ferma
mai. Su un
87enne moderno
e innamorato
di ogni melodia,
su un paese
troppo spesso
attaccato
e colonizzato
che non combatte
le nuove correnti
musicali che
vengono da
fuori e soprattutto
dagli Stati
Uniti, ma
le assimila
e rielabora
rendendole
uniche |
e profondamente
diverse. Una
sorta di sabotaggio
dell’imperialismo
culturale.
Perché
quello che
conta, come
spesso dicono
è il
ritmo. E il
tamburo. E
se dopo la
rivoluzione
il jazz vide
una strada
sbarrata di
fronte a sé,
pur riuscendo
a rientrare
per altre
vie- così
non è
per la Cuba
attuale e
i nuovi generi
musicali.
Emulando il
viaggio di
Ry Cooder
& C. a
New York questo
percorso finirà,
invece, agli
antipodi.
Geograficamente
e non solo.
I ragazzi
terribili
infatti terranno
un concerto
a Tokyo, grazie
alla atipica
campagna promozionale
del loro manager.
Uno studio
di ascolto
per turisti
orientali
tra quattro
comode pareti.
Messe però
su quattro
ruote. Già,
sempre il
nostro famoso
taxi. Il documentario
è davvero
piacevole,
la colonna
sonora assolutamente
adatta, e
non poteva
essere altrimenti.
Il punto di
vista sociale
e politico
viene solo
sfiorato e
oltre tutto,
spesso, in
maniera superficiale.
Ma in grande
libertà
e con onestà
intellettuale
da parte di
chi è
dietro la
macchina da
presa. E una
fetta di verità
esce fuori,
naturalmente.
Sono tutti
ragazzi e
pochi con
un’autentica
consapevolezza
di sé
e della collettività-
solo così
si spiega,
ad esempio
una descrizione
di Cuba completamente
antitetica
da parte di
un nero e
di un bianco
(un Eminem
formato gigante).
Hanno una
visione ideale
e stereotipata
della loro
terra, ma
anche una
grande passione
unita a un
talento straordinario
che riempie
le loro vite.
Musica come
motore vitale,
ma anche come
anestetico.
Dalla bellissima
Osdalgia,
musa di Pio
Leiva, al
Nene, da Mayito
Rivera all’aggressiva
Telmary è
impossibile
non battere
il piede di
nascosto,
sorridere
e seguire
il ritmo.
E non affezionarsi
a questa storia
semplice,
ingenua ed
entusiasta
ed ai suoi
protagonisti.
Non siamo
di fronte
ad un capolavoro.
Ma questo
documentario
è come
un buon vino,
o meglio come
il rum. Trascina
con delicatezza
e va gustato
lentamente.
(di Boris
Sollazzo)
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