LORDS OF DOGTOWN
 

lords of dogtown recensione

 
“Venice, il ghetto sul mare. E’ sporco, è lercio… insomma è il paradiso”. In questa frase del bel film di Catherine Hardwicke – miglior regia al Sundance e Pardo d’Argento a Locarno con l’affascinante e discontinuo Thirteen- è racchiuso tutto lo spirito spontaneamente anarchico e rivoluzionario dell’efficacissimo 'Lords of Dogtown'. Pur racchiuso in una confezione hollywoodiana non perde la sua grande forza, presente in forma ancora più dirompente nel documentario diretto da Stacey Peralta, qui bravo sceneggiatore pur se incline a qualche piccola forma di narcisismo nel raccontare se stesso. La storia che ci viene raccontata è l’epopea della banda degli Zephir Boys – dal nome del negozio in cui nacque questo 'Mercoledì da leoni' degli skaters -, ragazzi pieni di talento e di rabbia che riescono, attra-  
 
verso quattro rotelle di uretano, a cambiare e stravolgere la loro vita, la loro città e uno sport. Se le similitudini con il capolavoro di John Milius sono evidenti- facile rivedere Jack Barlow, Matt Johnson e Leroy nei campioni in erba Stacey Peralta, Tony Alva e Jay Adams o l’eccentrico Bear nello Skip Engblom straordinariamente interpretato dal miglior Heath Ledger di sempre, ad esempio – qui la carica reazionaria del film del  
1978 lascia il posto ad un’anarchia rabbiosa e meno politica che si dirige in senso comunque opposto. La regia magistrale della Hardwicke, completamente al servizio del film e la cui macchina da presa si sistema sulla tavola dello skate per seguirla con fedeltà ed amore, si accompagna alla sceneggiatura di Peralta – unico degli Zephir Boys che ce l’ha fatta davvero e forse il solo, però, ad essere stato inglobato dal sistema – vera e poco incline al buonismo, se non verso se stesso. “Dovete skateare ogni giorno come se fosse l’ultimo”. Il malinconico e intenso Heath Ledger urla questo ai suoi ragazzi, nella sua parte di antieroe idealista e opportunista, non sapendo di interpretare più di quanto immagini lo spirito di quell’avventura folle e affascinante. Straordinario Emile Hirsch nella parte di Jay Adams- genio e sregolatezza di stampo maradoniano, dotato di quella ingenuità visionaria che solo i campioni bambini sanno avere-, autentico interprete della lotta profonda tra il ribellismo creativo e il sistema arido e finanziario, impaurito e affascinato da ciò che non conosce e non capisce. Spalle di altissimo livello sono anche John Robinson nei panni di Stacey Peralta – più solare e meno profondo che in 'Elephant Man', ovviamente- e un diligente Viktor Rasuk, abile e rigoroso nel raccontare il determinato “messicano” Tony Alva, affamato e arrabbiato nel suo voler “fare soldi e scopare tutte le sere” e nel voler “fare a gara con il sole per stare al centro dell’universo”. Casting, quindi, davvero intelligente e molto riuscito. Un esempio per tutti Rebecca DeMornay. Mai così invecchiata e sbandata, ma mai così bella e vera. L’impatto emotivo e sociale del film è tutto, come nel documentario, in questa straordinaria storia, vera, scritta da “cattivi ragazzi”, skactors senza saperlo e volerlo già allora . E quelle che quindi possono sembrare trovate hollywoodiane buoniste e catartiche sono l’espressione delle esagerazioni adolescenziali (ma poi lo sono davvero o le vediamo tali noi ipocriti codardi?) ed è evidente in alcuni dettagli davvero illuminanti. Lo dimostra uno Stacey Peralta, prima goffo e poi egoista come solo un quindicenne potrebbe essere, nella prima gara in cui gli Zephir Boys si esibiscono. Sono loro con il loro idealismo pratico, con la loro passione a rendere Venice, il ghetto, e il loro quartiere, Dogtown, un paradiso. A trasformare i chilometri di cemento in onde, a riqualificare socialmente ed esteticamente il simbolo del progresso e dello sviluppo insostenibile. Sono loro infine, grazie alla siccità, ad appropriarsi del simbolo borghese della California agiata: quelle piscine che li renderanno unici riferimenti per talento, coraggio e abilità nel loro sport. Infine, una nota di merito va data alla colonna sonora. Come in 'Dogtown & Z-Boys' diventa una protagonista discreta ma assoluta. Di altissimo livello. Per scelta dei brani, adattamento e capacità di aderire alla storia. Per questo pochi potranno dimenticare un Heath Ledger invecchiato e prostrato, dipendente nel suo stesso negozio e apparentemente senza più energie fisiche e mentali, lavorare con rinnovata lena su una tavola da surf al tempo di Maggie May di Rod Stewart.

(di Boris Sollazzo)

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