LAST DAYS
 
 

di Antonio Nasso

 

di Margherita S. di Teulada

"Teenage angst has paid off well, now i’m bored and old". Undici anni fa, in Aprile, moriva Kurt Cobain, leader dei Nirvana e icona rock di una generazione, quella Generazione X di reietti e alienati descritta da Douglas Coupland nel suo omonimo libro. Il più amato tra i cantori del fallimento gettava la spugna. Moriva per sua stessa mano, con un colpo di fucile in bocca, nel garage di casa, subito dopo essersi iniettato l’eroina contenuta nella sua famosa scatola a forma di cuore. Moriva lontano da tutto e tutti, in silenzio, circondato solo dall’alone di mistero sui suoi ultimi giorni di vita. Da qui prende le mosse il nuovo lavoro di Gus Van Sant, "Last Days", che prova a raccontare, e soprattutto a romanzare, le ultime ore di un Cobain disperato e ormai prossimo alla soluzione finale. Un film, va detto, che non solo non è ad uso e consumo dei fan, non è   Gli ultimi giorni di Kurt Cobain, ultima grande icona “maledetta” del rock. Una morte che si inscrive nel firmamento plumbeo di tutti i grandi poets maudits della musica: Brian Jones dei Rolling Stones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, fino al giovanissimo Ian Curtis dei Joy Division. Gus Van Sant immortala i grigi giorni che precedono il suicidio del leader dei Nirvana con il consueto sguardo lucido e distaccato. Il film si apre con il protagonista che arranca nel bosco vicino a casa. Qui inizia il “pedinamento” registico, come si era già visto in Elephant, con la cinepresa che insegue i personaggi riprendendoli soprattutto di spalle, in un cammino claustrofobico e senza meta. Kurt Cobain (ribattezzato Blake, forse un richiamo al visionario poeta e pittore inglese) vaga senza posa tra il giardino e la casa, si trascina da una stanza all'altra,
 
 
 
che addirittura potrebbe lasciarli totalmente indifferenti. Non una canzone dei Nirvana è presente, né quello spirito commemorativo e idolatrante che piace tanto agli appassionati. È un’opera scarna, auditivamente e visivamente, in cui il protagonista mormora tra sé frasi sconnesse mentre si aggira per i boschi, lontano dalla civiltà. Blake (Michael Pitt), il Kurt del film, è un fantasma che ha gia smesso di vivere da parecchio tempo, perdendo ogni interesse nel mondo intorno a lui. Ma per gli altri la vita continua e così il manager insiste per organizzare il tour, mentre giovani musicisti attendono per un suo consiglio e lei lo fa cercare dappertutto per riportarlo a casa. Non si accorgono che lui non li ascolta più, derubato di ogni singola emozione, come se metterle su carta nelle canzoni comporti la loro perdita. Non è un caso, è anzi un bel tributo alla figura di Cobain, il fatto che Blake parli sinceramente solo con Kim Gordon dei Sonic Youth, in uno dei pochi istanti di serenità. Il resto è una serie di immagini statiche e rumorose e dialoghi centellinati. Come già in Elephant, Van Sant non segue necessariamente un ordine cronologico per le sue sequenze e questo accentua la sensazione di immobilità che il film trasmette. Un film difficile e coraggioso, che persegue l’obbiettivo di demitizzare la figura di Cobain, sottraendola al cumulo di frasi e immagini retoriche che la hanno ricoperta negli anni. Il regista non offre giudizi ma solo immagini, quasi come se la telecamera fosse lì per caso, senza un progetto cinematografico alla spalle. Sarebbe stato più facile e gratificante per un regista realizzare un film che cantasse il mito della rockstar infelice e suicida, con in sottofondo le sue canzoni per far sciogliere i fan in sala. Ma non avrebbe mai potuto girarlo Gus Van Sant, al quale va il nostro ringraziamento per aver realizzato un gran film che fortunatamente non diventerà mai di culto.   mormora frasi sconnesse con lo sguardo perso in un vuoto che risucchia ogni residua energia. Michael Pitt, smessi i panni da insipido sempliciotto in “The Dreamers”, costruisce un personaggio credibilissimo, grazie a una forte somiglianza fisica e a espedienti latori di immediata riconoscibilità presso il pubblico, come quando indossa il vestito nero da donna con cui Cobain appariva anche durante i concerti, o gli occhiali dalla foggia anni Sessanta, che imperversano in numerose fotografie. Il resto lo suggeriscono la trasandata chioma bionda, la barba incolta, le movenze incerte, e soprattutto i rari momenti in cui Blake/Kurt prende in mano la chitarra e improvvisa accordi strazianti. In un film che evita ostinatamente il coinvolgimento dello spettatore, scegliendo un taglio cronachistico e impietoso, i pochi istanti in cui Blake suona costituiscono gli unici passaggi dotati di carica emozionale, in grado di comunicare il disagio, la disperazione struggente di un ragazzo odiava se stesso ed era giunto a detestare il mondo. Nessuna musica dei Nirvana echeggia nel film, forse per evitare il facile plauso di chi ha amato visceralmente gli album del gruppo. Ma bastano le melodie composte dallo stesso Pitt, inaspettatamente evocative del modo di cantare di Cobain, con la voce sofferta che sembra sempre sul punto di spezzarsi, vibrante di rabbia e disillusione, e bastano i suoni distorti, sporchi, ossessivi, della chitarra e della batteria, a trasmettere l’immagine che tutti ricordano. Suoni che lacerano il silenzio come rasoiate, riportando alla mente una musica cupa, dall’impatto corrosivo, e mettendo a nudo frammenti di una personalità fragile e talentuosa che ha rivoluzionato la musica: un giovane uomo di cui si è conosciuto il lato oscuro, la distruttività, ma anche la dirompente e caustica vena creativa. Squarci toccanti che affondano in un quadro piatto e glaciale, in cui il regista abbandona qualsiasi pretesa di attuare uno scavo psicologico. Il film resta al livello di documentario, usa molto più l’occhio del cuore, non indulge in patetismi, non divinizza il fenomeno planetario degli anni novanta, ma lo scarnifica e lo riduce a una sequenza di ore insensate e squallide. Van Sant non azzarda spiegazioni, non intesse un tributo alla memoria, non si impadronisce dell’abusato cliché romantico-decadente della morte prematura. Seziona e registra ciò che precede la catastrofe. Che arriva senza enfasi: un corpo sdraiato nel capanno degli attrezzi, visto attraverso un vetro. Il racconto asettico e crudo si serve di silenzi, reiterazioni di scene e scarti cronologici per dipingere la tormentata solitudine del protagonista e la sua ricerca della morte. Una morte che è solo lo scontato gradino in più in un sentiero segnato: talmente presagita e invocata da non avere più il senso dell’Evento. Spogliata di mistero, perché in realtà la tragedia si è già consumata mesi, forse anni prima Resta solo una fine da cronaca quotidiana, uguale a mille altre, logora e desolata, come se il traguardo dell’annullamento fosse giunto già da molto tempo a portarsi via un ragazzo di Seattle.
 
 
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