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di
Margherita
S. di Teulada
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"Teenage
angst has paid
off well, now
i’m bored
and old".
Undici anni
fa, in Aprile,
moriva Kurt
Cobain, leader
dei Nirvana
e icona rock
di una generazione,
quella Generazione
X di reietti
e alienati descritta
da Douglas Coupland
nel suo omonimo
libro. Il più
amato tra i
cantori del
fallimento gettava
la spugna. Moriva
per sua stessa
mano, con un
colpo di fucile
in bocca, nel
garage di casa,
subito dopo
essersi iniettato
l’eroina
contenuta nella
sua famosa scatola
a forma di cuore.
Moriva lontano
da tutto e tutti,
in silenzio,
circondato solo
dall’alone
di mistero sui
suoi ultimi
giorni di vita.
Da qui prende
le mosse il
nuovo lavoro
di Gus Van Sant,
"Last Days",
che prova a
raccontare,
e soprattutto
a romanzare,
le ultime ore
di un Cobain
disperato e
ormai prossimo
alla soluzione
finale. Un film,
va detto, che
non solo non
è ad
uso e consumo
dei fan, non
è |
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Gli
ultimi giorni
di Kurt Cobain,
ultima grande
icona “maledetta”
del rock. Una
morte che si
inscrive nel
firmamento plumbeo
di tutti i grandi
poets maudits
della musica:
Brian Jones
dei Rolling
Stones, Jimi
Hendrix, Janis
Joplin, Jim
Morrison, fino
al giovanissimo
Ian Curtis dei
Joy Division.
Gus Van Sant
immortala i
grigi giorni
che precedono
il suicidio
del leader dei
Nirvana con
il consueto
sguardo lucido
e distaccato.
Il film si apre
con il protagonista
che arranca
nel bosco vicino
a casa. Qui
inizia il “pedinamento”
registico, come
si era già
visto in Elephant,
con la cinepresa
che insegue
i personaggi
riprendendoli
soprattutto
di spalle, in
un cammino claustrofobico
e senza meta.
Kurt Cobain
(ribattezzato
Blake, forse
un richiamo
al visionario
poeta e pittore
inglese) vaga
senza posa tra
il giardino
e la casa, si
trascina da
una stanza all'altra, |
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che
addirittura
potrebbe lasciarli
totalmente indifferenti.
Non una canzone
dei Nirvana
è presente,
né quello
spirito commemorativo
e idolatrante
che piace tanto
agli appassionati.
È un’opera
scarna, auditivamente
e visivamente,
in cui il protagonista
mormora tra
sé frasi
sconnesse mentre
si aggira per
i boschi, lontano
dalla civiltà.
Blake (Michael
Pitt), il Kurt
del film, è
un fantasma
che ha gia smesso
di vivere da
parecchio tempo,
perdendo ogni
interesse nel
mondo intorno
a lui. Ma per
gli altri la
vita continua
e così
il manager insiste
per organizzare
il tour, mentre
giovani musicisti
attendono per
un suo consiglio
e lei lo fa
cercare dappertutto
per riportarlo
a casa. Non
si accorgono
che lui non
li ascolta più,
derubato di
ogni singola
emozione, come
se metterle
su carta nelle
canzoni comporti
la loro perdita.
Non è
un caso, è
anzi un bel
tributo alla
figura di Cobain,
il fatto che
Blake parli
sinceramente
solo con Kim
Gordon dei Sonic
Youth, in uno
dei pochi istanti
di serenità.
Il resto è
una serie di
immagini statiche
e rumorose e
dialoghi centellinati.
Come già
in Elephant,
Van Sant non
segue necessariamente
un ordine cronologico
per le sue sequenze
e questo accentua
la sensazione
di immobilità
che il film
trasmette. Un
film difficile
e coraggioso,
che persegue
l’obbiettivo
di demitizzare
la figura di
Cobain, sottraendola
al cumulo di
frasi e immagini
retoriche che
la hanno ricoperta
negli anni.
Il regista non
offre giudizi
ma solo immagini,
quasi come se
la telecamera
fosse lì
per caso, senza
un progetto
cinematografico
alla spalle.
Sarebbe stato
più facile
e gratificante
per un regista
realizzare un
film che cantasse
il mito della
rockstar infelice
e suicida, con
in sottofondo
le sue canzoni
per far sciogliere
i fan in sala.
Ma non avrebbe
mai potuto girarlo
Gus Van Sant,
al quale va
il nostro ringraziamento
per aver realizzato
un gran film
che fortunatamente
non diventerà
mai di culto. |
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mormora
frasi sconnesse
con lo sguardo
perso in un
vuoto che risucchia
ogni residua
energia. Michael
Pitt, smessi
i panni da insipido
sempliciotto
in “The
Dreamers”,
costruisce un
personaggio
credibilissimo,
grazie a una
forte somiglianza
fisica e a espedienti
latori di immediata
riconoscibilità
presso il pubblico,
come quando
indossa il vestito
nero da donna
con cui Cobain
appariva anche
durante i concerti,
o gli occhiali
dalla foggia
anni Sessanta,
che imperversano
in numerose
fotografie.
Il resto lo
suggeriscono
la trasandata
chioma bionda,
la barba incolta,
le movenze incerte,
e soprattutto
i rari momenti
in cui Blake/Kurt
prende in mano
la chitarra
e improvvisa
accordi strazianti.
In un film che
evita ostinatamente
il coinvolgimento
dello spettatore,
scegliendo un
taglio cronachistico
e impietoso,
i pochi istanti
in cui Blake
suona costituiscono
gli unici passaggi
dotati di carica
emozionale,
in grado di
comunicare il
disagio, la
disperazione
struggente di
un ragazzo odiava
se stesso ed
era giunto a
detestare il
mondo. Nessuna
musica dei Nirvana
echeggia nel
film, forse
per evitare
il facile plauso
di chi ha amato
visceralmente
gli album del
gruppo. Ma bastano
le melodie composte
dallo stesso
Pitt, inaspettatamente
evocative del
modo di cantare
di Cobain, con
la voce sofferta
che sembra sempre
sul punto di
spezzarsi, vibrante
di rabbia e
disillusione,
e bastano i
suoni distorti,
sporchi, ossessivi,
della chitarra
e della batteria,
a trasmettere
l’immagine
che tutti ricordano.
Suoni che lacerano
il silenzio
come rasoiate,
riportando alla
mente una musica
cupa, dall’impatto
corrosivo, e
mettendo a nudo
frammenti di
una personalità
fragile e talentuosa
che ha rivoluzionato
la musica: un
giovane uomo
di cui si è
conosciuto il
lato oscuro,
la distruttività,
ma anche la
dirompente e
caustica vena
creativa. Squarci
toccanti che
affondano in
un quadro piatto
e glaciale,
in cui il regista
abbandona qualsiasi
pretesa di attuare
uno scavo psicologico.
Il film resta
al livello di
documentario,
usa molto più
l’occhio
del cuore, non
indulge in patetismi,
non divinizza
il fenomeno
planetario degli
anni novanta,
ma lo scarnifica
e lo riduce
a una sequenza
di ore insensate
e squallide.
Van Sant non
azzarda spiegazioni,
non intesse
un tributo alla
memoria, non
si impadronisce
dell’abusato
cliché
romantico-decadente
della morte
prematura. Seziona
e registra ciò
che precede
la catastrofe.
Che arriva senza
enfasi: un corpo
sdraiato nel
capanno degli
attrezzi, visto
attraverso un
vetro. Il racconto
asettico e crudo
si serve di
silenzi, reiterazioni
di scene e scarti
cronologici
per dipingere
la tormentata
solitudine del
protagonista
e la sua ricerca
della morte.
Una morte che
è solo
lo scontato
gradino in più
in un sentiero
segnato: talmente
presagita e
invocata da
non avere più
il senso dell’Evento.
Spogliata di
mistero, perché
in realtà
la tragedia
si è
già consumata
mesi, forse
anni prima Resta
solo una fine
da cronaca quotidiana,
uguale a mille
altre, logora
e desolata,
come se il traguardo
dell’annullamento
fosse giunto
già da
molto tempo
a portarsi via
un ragazzo di
Seattle. |
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