sentirsi
coinvolto
in quello
che vede:
spettatore
che è
portato a
distrarsi
e a provare
noia e fastidio
di fronte
a comportamenti
difficilmente
spiegabili
e quasi mai
motivati.
Azioni dialoghi
espressioni,
tutto non
spontaneo
e “studiato
a tavolino”,
per convincere
il pubblico
che la famiglia
perfetta è
immaginaria
e che va accettata
così
com’è,
nel bene e
nel male.
Si può
essere o meno
d’accordo,
ma non è
questo l’importante:
una tesi può
essere discutibile
ma in un film
va trattata
“cinematograficamente”,
coinvolgendo
chi assiste
allo spettacolo,
provocando
la sua approvazione
o il suo rifiuto
ma inducendolo
sempre a immergersi
in una visione
che in quel
momento è
la realtà.
L’opera
di Dan Harris
è stata
presentata
l’anno
scorso al
Festival di
Toronto riscuotendo
un buon successo
di critica.
Ma da un prodotto
del cinema
indipendente
ci aspetteremmo
più
coraggio,
meno conformismo:
evidentemente
l’America
oggi ha troppo
bisogno di
“consolazione”
per permettersi
il lusso del
controcorrente.
Il “lieto
fine”
è sempre
maggiormente
necessario.
In questa
deludente
operazione
ritroviamo
due attori
che non meritavano
di esservi
coinvolti:
Sigourney
Weaver e Jeff
Daniels, ambedue
bravissimi
nel tentativo
di dare consistenza
a personaggi
stereotipati
e non convincenti.
p.s. pessimo
il doppiaggio,
assurdo il
commento musicale
in perenne
contrasto
con le scene
a cui assistiamo
(di Leo
Pellegrini)