HOTEL
 

recensione hotel

 
Recensire una pellicola come 'Hotel', diretta da quella Jessica Hausner di cui già sentimmo parlare, nel 2001, grazie a 'Lovely Rita', non è sicuramente una delle imprese più facili. Abituati come siamo a guardare un certo cinema d’intrattenimento ad alta tensione di matrice tipicamente americana, leggere che il film appartiene al filone thriller ci fa pensare subito ad una storia carica di adrenalina e situazioni che tengono lo spettatore continuamente sulle spine, ma quando ci accorgiamo che si tratta di una produzione austro-tedesca allora realizziamo che alla sua base c’è un concetto completamente diverso di messa in scena e narrazione per immagini, meno propenso al puro intrattenimento e più concentrato sul lato psicologico, con tanto di simbologie di carattere religioso. Influenzata dalle favole austriache e dalla mitologia, la  
 
Hausner, come suggerisce il titolo, ambienta la sua sceneggiatura in un hotel, costruzione che in più di un’occasione la Settima Arte ha trasformato in teatro degli orrori, da Shining (1981) a titoli meno noti come 'Puppetmaster-Il burattinaio' (1989) e '13° piano: fermata per l’inferno' (1990), meglio ancora se vicino c’è un tetro bosco come quello in cui scompaiono i protagonisti di 'The Blair witch project-Il mistero della strega di Blair' (1999) o in cui Cappuccetto Rosso fa l’inaspettato incontro con il lupo cattivo. Ed il Cappuccetto Rosso in questione si chiama Irene, con il volto della Francisca Weisz (vero nome Francisca Weiss) interprete in precedenza soltanto del drammatico 'Dog days' (2001), la quale viene assunta alla reception per poi scoprire che sta sostituendo una ragazza scomparsa in circostanze misteriose. Da questo momento in poi ci si aspetterebbero situazioni di pericolo a ripetizione ed indizi che emergono progressivamente, la regista, invece, rispecchiando buona parte di una certa produzione europea tipica del suo paese e di quelli circostanti, si mantiene, aiutata in modo particolare dalla fotografia priva di colorate e fantasiose concessioni di Martin Gschlacht (Luna Papa), su un piano altamente freddo e realistico, ricorrendo spesso, probabilmente per conferire un tocco di mistero in più, all’immagine della ragazza che s’immerge nelle tenebre, infatti asserisce: “Il racconto convenzionale che acquisisce un significato in virtù della tensione drammatica non mi soddisfa se lo confronto con la complessità del reale. Preferisco scrivere della mancanza di equilibrio e della casualità della vita. Gli eventi si susseguono senza logica, senza una conclusione reale: un inizio splendido può presentare un epilogo disastroso, i sacrifici umani possono produrre dei risultati o non portare a niente, in ogni caso l’unica cosa certa nella vita è la morte. Non è dato sapere solo quando, come e perché ciò accade. La fine di 'Hotel' rifiuta lo “spettacolo” e non appartiene alla casistica di quei film che terminano proponendo una soluzione al pubblico perché nella vita niente è risolto. Quando Irene entra nell’oscurità in parte sceglie e in parte è guidata dal destino. Il film esamina la sete di conoscenza che spinge l’individuo ad esplorare il lato più oscuro dell’esistenza, pur non raggiungendo una comprensione intima della morte che rimane misteriosa oltre ad essere una condizione ineliminabile”. Effettivamente, la brusca ed apparentemente insensata conclusione di 'Hotel' può spingere a pensare su quanti casi di sparizione, nella vita reale, non trovino spiegazione, e che la dimora del titolo possa idealmente rappresentare proprio quella in cui albergano i misteri irrisolti del quotidiano vivere, sostanzialmente, però, al di là della nostra formazione culturale, tendiamo a preferire orrori più concreti e meno suggeriti, tanto più che quello che dovrebbe porre lo spettatore in stato di attesa si rivela essere il noioso assemblaggio di lunghe e silenziose inquadrature, dal contenuto tutt’altro che coinvolgente. (di Francesco Lomuscio)


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