La quantità
delle pellicole horror
e thriller sfornata
ogni anno dall’industria
cinematografica è
sempre più
inversamente proporzionale
alla qualità.
Pochissimi registi
riescono ad andare
oltre al déjà
vu e David Carreras,
con il film Hipnos,
non è certo
fra questi. La giovane
psichiatra Beatriz
accetta di lavorare
in una clinica dove
si sperimentano nuovi
e inquietanti metodi
di cura, come l’ipnosi.
Subito dopo il suo
arrivo, una bambina
che era stata da poco
ricoverata muore in
circostanze misteriose.
Beatriz indaga per
capire se si tratti
di suicidio o di omicidio,
cercando di ottenere
informazioni dagli
altri pazienti. Parla
anche con l’enigmatico
Miguel, un malato
particolarmente problematico
e violento, che la
mette in guardia sui
pericoli e gli inganni
che si annidano all’interno
della casa di cura.
Beatriz ini-
zia
a vedere
spezzoni
di una
realtà
da incubo,
che
non
riesce
a comprendere.
Si susseguono
visioni
che
sembrano
appartenere
al passato
e al
presente
contemporaneamente.
Alla
fine,
la soluzione
che
riunisce
le tessere
di questo
pasticciato
puzzle
è
da ricercare
nell’elaborazione
(confusa)
del
vissuto
interiore
della
protagonista.
L’esplorazione
dell’inconscio
come
base
di un
thriller
era
già
stata
alla
base
del
film
Identità
di
Mangold,
con risultati
di gran lunga
superiori.
La maniera
in cui è
presentata
la presa di
coscienza
finale di
Beatriz sembra
copiata dal
Sesto senso
di Shyamalan.
Hipnos non
offre una
storia originale
e tanto meno
è in
grado di sfruttare
un modo affascinante
o differente
per svelare
i misteri
(plagiati)
intorno ai
quali ruota
il film. Nessun
sobbalzo sulla
poltrona,
nessun brivido
accompagna
la visione
del film.
I fruscii,
le urla improvvise
dopo un silenzio
di tomba,
le rapide
sequenze visionarie
che vorrebbero
essere agghiaccianti,
si possono
prevedere
con puntuale
precisione.
Il film di
Carreras altro
non è
che un insieme
di luoghi
comuni rivisitati
e rimescolati.
Inutile e
di una banalità
sconcertante.