IN GOOD COMPANY
 

recensione in good company

 
Imprevedibile e sincera: questa la morale del nuovo film dei fratelli Weitz che, a quattro anni dall’ultima produzione, About a Boy, unico film in grado di rendere godibile anche Hugh Grant, tornano a farsi sentire sulla scena con una commedia agrodolce, astutamente atta a conciliare un sottile umorismo di scena con una ben più impegnata introspezione circa il sostrato di rapporti interpersonali e professionali che permeano il sottobosco sociale in cui (sopra)Viviamo. Attraverso un sapiente utilizzo della macchina da presa, sottile nel compiere repentini ma evocativi stacchi spazio-temporali, riponendo nel nesso causale la vera chiave di volta della pellicola, il film racconta la vicenda di un cinquantaduenne manager (Dennis Quaid), improvvisamente costretto a convivere con l’arrivo di un nuovo figlio  
 
il declassamento nella scala di valori aziendale a favore di un ben più giovane ma a tratti spaesato rampollo (Topher Grace) e la relazione amorosa che nasce tra quest’ultimo e la figlia Alex, portata sugli schermi da una graziosissima Scarlett Johansson, a tratti emanazione della melanconica Charlotte di Lost in Translation. Pellicola, quella dei Weitz, madrina di un cast giovane, in cui la presenza di Quaid funge da  
chioccia nei confronti dei meno vetusti colleghi, e che merita di essere annoverata nel calderone informe dei film apprezzabili, oltre che per l’etica inattesa, anche per un utilizzo sapiente di espedienti, quali il campo/controcampo e il pianosequenza, miscelati tra loro con eleganza, al punto da rendere medianica anche una trama oggettivamente comprensibile. Risolto con una chiusa inaspettata (soprattutto alla luce degli scontati plot tipici delle commedie made in USA), la pellicola racconta, senza troppi slanci di sentimentalismo sdolcinato, una storia di amore e vita e lo fa senza ricorrere all’utilizzo stereotipato di cliché inflazionati. Parla di come troppo spesso l’universo professionale riesca a sacrificare passione e sentimento all’altare dell’ambizione; di come la frenetica società multimediale del giorno d’oggi crei dei mostri per poi risucchiarli, con la medesima ingordigia, in uno sterminato e ansante buco nero; di come sia banale reputare arrivato il nostro microcosmo d’esperienze e di come sovvertire ed essere sovvertiti sia all’ordine del giorno; ma soprattutto descrive il nostro status quo di semplici mattonelle nella barriera dell’indifferenza.
In questo universo d’incertezza a cosa aggrapparsi dunque? L’intelligenza di questa 35 mm è di rispondere non tanto all’amore ma più alla ricerca di qualcosa (non per forza qualcuno) che ci permetta di vivere e sopravvivere, sinergicamente, in buona compagnia.
(di Marco Visigalli)
 
 
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