GIOCO DI DONNA
 

recensione gioco di donna

 
Che sia giunta l’ora di una tanto attesa quanto legittima consacrazione di fronte al grande pubblico anche per John Duigan? Personalmente lo auguro di tutto cuore ad un regista che in questi anni ha regalato alle platee delle buone produzioni, le quali, per quanto salutate con entusiasmo dalla critica, hanno riscontrato poco credito ai botteghini, causa la perseverante miopia spettatoriale. Trascorsi quattro anni dal suo ultimo film, The Parole Officer, il regista anglosassone, autore, tra gli altri, di Romero (1989), Sirens (1994) e Lawn Dogs (1997), torna prepotentemente in scena con una pellicola di spessore, grazie anche, oltre all’utilizzo di una fotografia pulita e di una fedele riproduzione scenografica, all’assemblaggio di un cast sensazionale, costituito dai pochi esempi rimastici di talenti Hollywoodiani che hanno saputo  
 
mantenere una recitazione pura, senza troppi manieristici orpelli, e da una schiera di giovani attori di primo pelo, promesse auspicate del cinema di domani (Karine Vanasse in primis). Charlize Theron, che interpreta Gilda, donna istintiva portata a vivere ogni tipo di esperienza, anche in seguito ad una triste premonizione fattale all’età di quattordici anni, sulla scia della recitazione da Oscar in Monster, evoca a tratti il  
luminoso fascino di Marlene Dietrich in Shangai Express di Von Sternberg; Penelope Cruz (Mia) aggiunge al proprio palmares un’altra interpretazione superlativa; Stuart Townsend (Guy) convince nel ruolo di uomo combattuto tra il proprio idealismo e l’amore verso una donna splendida(Gilda). Storia di un sentimento sofferto, fatto di continui scivoloni e susseguenti risalite, “Gioco di donna” tocca le corde emotive più recondite e catapulta lo spettatore nel bel mezzo della scena, portandolo, senza troppi indugi, ad interrogarsi circa storia, amore e vita. Girato tra la Parigi boheme, “Città delle luci” figlia di Ernest Hemingway e Coco Chanel, e la plumbea ed accademica Cambridge, il film si snoda lungo un viatico che, partendo dai primi anni ’30, arriva fino al D-Day, passando attraverso gli orrori nazi-fascisti della guerra Franchista. È in questo sostrato che si costruisce la travagliata vicenda amorosa di un uomo e di una donna che trovano nella loro diversità il seme della completezza reciproca. Motore primo dell’intreccio il leitmotiv ricorrente del destino umano, che Duigan sbroglia rimanendo costantemente sospeso tra il determinismo senz’appello e il tentativo di rivalsa, per culminare in un finale all’apparenza ambiguo che regala, come unica certezza, l’interrogativo amletico se siamo davvero i protagonisti della nostra esistenza oppure soltanto gli schiavi di un destino fatalmente aprioristico.

(di Marco Visigalli)
 
 
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