Un ragazzo gira per
la città con
la sua moto, distribuendo
volantini. Ripercorre
lo stesso tragitto
e si ferma davanti
ad una porta dove
il volantino non è
stato tolto: probabilmente
in casa non c’è
nessuno. Apre allora
la porta con dei chiavistelli
ed entra. Non ruba,
non scassina, non
distrugge: abita la
casa con l’amore
di chi la possiede,
prendendosi cura delle
piante, aggiustando
gli oggetti rotti
e risistemando tutto
prima di andarsene.
Vive cosi Tae-Suk,
passando di casa in
casa quando i proprietari
non ci sono; fino
a che non incontra
Sun-hwa, bella, ricca
e infelice, con i
segni sul corpo dei
maltrattamenti del
marito. Affascinata
dai suoi modi delicati
e gentili, Sunhwa
decide di fuggire
con lui , con la prospettiva
di una vita ai margini
ma che ha il sapore
della libertà.
La fuga si interrompe
bruscamente quando
in una
delle
case
trovano
un uomo
morto;
Tae-Suk
viene
accusato
dell’omicidio
e imprigionato,
lei
obbligata
a tornare
a casa.
Potranno
ritrovarsi
solo
alla
fine;
e il
regista
getta
ambiguità
sull’happy
end
con
un “è
difficile
dire
se il
modo
in cui
viviamo
sia
realtà
o sogno”.
Il tema
centrale
del
film
è
la comunicazione.
Due
codici
sono
messi
a confronto:
la parola
e il
silenzio;
due
mondi:
i protagonisti
e tutti
gli
altri.
C’è
uno iato che
impedisce
il passaggio
da una parte
all’altra,
una linea
netta di demarcazione:
la pallina
da golf si
fa segno del
diverso approccio
con l’altro,
a volte violento,
a volte dolce,
a volte mortale.
I protagonisti
non parlano
ma comunicano
continuamente:
con la musica,
con gli sguardi,con
i gesti, con
il silenzio,
un silenzio
tattile, concreto,
denso. Il
codice visivo
serve ad assolutizzare
ancora di
più
il legame
che c’è
fra loro:
solo lei alla
fine può
vederlo. Kim
ki-duk utilizza
una linguaggio
sottile e
penetrante,
lascia parlare
gli oggetti,
concreti e
simbolici
al tempo stesso.
Il film si
apre con un’immagine
non pienamente
decifrabile:
percepiamo
il sibilo
della mazza
da golf, il
colpo secco
dato alla
pallina, la
pallina che
colpisce un
telo azzurro.
Ma non vediamo
nessuno tenere
una mazza;
proprio come
“gli
altri”
del film.
È questa
la riflessione
che l’autore
vuole farci
fare in questo
film costruito
su un silenzio
lirico, magicamente
poetico. (di
Margherita
Pasquini)