Mondo dei giovani
(pardon ggiovani)
parte seconda. Obiettivo
puntato stavolta sul
problema Lavoro, con
annessi e connessi
(disoccupazione, stipendio,
realizzazione professionale),
dopo aver già
focalizzato il problema
Amore, con annessi
e connessi (matrimonio,
famiglia, figli),
nell’ormai celebre
Casomai, sempre ad
opera della premiata
ditta D’Alatri/Volo.
Quest’ultimo
è Mario, giovane
d’età
indefinita che nella
Cremona d’oggi
coltiva il sogno di
aprire un locale con
gli amici. Ma poi
viene assunto in comune
come geometra scontrandosi
con la burocrazia
e le invidie dei superiori
con conseguenza di
sogni infranti e gratificazioni
frustrate. Lo stesso
d’Alatri ha
precisato che La febbre
non è tanto
un film sul lavoro
quanto sull’Italia.
E, infatti, in esso
si mescolano il posto
fisso con il perseguimento
dei propri sogni,
la
tranquilla
routine
con
la realizzazione
di sé,
il conformismo
e il
desiderio
di libertà,
il sociale
e il
privato,
l’amicizia
e l’amore,
i desideri
dei
padri
e i
desideri
personali.
E poi
la corruzione
del
Potere,
la descrizione
di un'
Italietta
piccola
e misera
di cucinotti
spogli,
pensili
bianchi
e carta
da parati,
pranzi
con
parenti,
il lavoro
in comune,
le solite
birre
con
gli
amici
al bar.
Accumulando
temi
su temi
mano
a mano
che
la pellicola
avanza,
la se-
nsazione
è che
ne La febbre
ci sia una
gran confusione,
come quando
con la febbre
si tende a
saltare di
palo in fresca
delirando
parole sconnesse.
Negli interni
e nei discorsi
si respira
un’aria
fatta di prospettive
ravvicinate,
di provincialismi
mediocri,
di consuetudini
stereotipate,
di vie di
fuga incapaci
di fuggire
d’alcunché.
E il problema
è che
il film stesso
non riesce
ad avere orizzonti
più
ampi, in cui
anche le utopie
sognate per
sfuggire al
grigiore quotidiano
finiscono
con l’essere
altrettanto
grigie, convenzionali
al pari di
quelle convenzioni
che vorrebbe
superare.
Il locale
da gestire,
la “strafiga”
di turno che
di notte balla
sul cubo e
di giorno
legge Derek
Walcott, che
si prende
cura dei cani
e s’innamora
dell’impiegatino
dal fare impacciato
perché
ha dei “bei
pensieri”,
il conseguimento
della laurea
come momento
di crescita
interiore.
Ma si può
nel 2005 proporre
ancora la
laurea come
un simbolo,
come un traguardo
verso cui
tendere? Ecco,
La febbre
è un
film nuovo
che è
già
vecchio nella
mentalità
e nelle idee,
che sarebbe
stato perfetto
se fosse stato
ambientato
30 anni fa.
Così
al nostro
Mario, cui
la vita va
stretta ma
di cui nulla
c’induce
a pensarlo
migliore degli
altri, non
rimane altro
che ritirarsi
in mezzo alla
campagna a
fare la cosa
più
pacchiana
che si possa
immaginare:
realizzare
sculture in
vetro e metallo
con l’amico
operaio. Così
il suo momento
di gloria
finale, incarnatosi
nel presidente
che decide
d’improvviso
di visitare
il cimitero
dove il nostro
era stato
mandato come
in punizione
dal capo geloso,
con tanto
di televisioni
al seguito,
suona come
una giustizia
divina, in
realtà
magra consolazione,
sintomo di
quell’italietta
piccola anche
nei sogni,
dalla quale
il film non
riesce a staccarsi.
Ottima la
colonna sonora
di potente
rock nostrano.