Vincitore della Palma
d'Oro all'ultimo Festival
di Cannes, con già
alle spalle incassi
eccezionali per un
documentario (più
di 153 milioni di
dollari negli Stati
Uniti e negli altri
paesi in cui è
uscito), esce anche
in Italia Fahrenheit
9/11, il
film di Michael
Moore sulle
condizioni dell'America
dopo il trauma dell'attacco
alle Torri gemelle,
sulla politica estera
del presidente Bush
e sulle attività
imprenditoriali di
suo padre, l'ex presidente
Bush, sulle connessioni
finanziarie e personali
tra la famiglia Bush
e la famiglia Bin
Laden e i potentati
sauditi, sulla strumentalità
della guerra in Iraq,
sui pericoli per le
libertà individuali
insiti nel Patriotic
Act (la legge a tutela
della sicurezza nazionale
emanata negli Stati
Uniti dopo l'11 settembre),
sullo stato di allerta
perenne (e perciò
di paranoia, di debolezza,
di dipendenza) in
cui sono tenuti da
allora i cittadini
ame-
ricani.
Una
montagna
di carne
al fuoco,
in pratica
(in
gran
parte
riprodotta
nel
libro
di Moore
pubblicato
nel
2003,
"Ma
come
hai
ridotto
questo
paese?"),
cui
però
non
corrisponde
una
resa
cinematografica
altrettanto
efficace
di quella
dei
due
lungometraggi
precedenti
del
più
rissoso
(e,
attualmente,
più
ricco)
documentarista
d'America,
"Bowling
a Columbine"
e "Roger
&
Me".
Aperto
dal
presunto
broglio elettorale
del 2000 in
Florida (quando
il responso
favorevole
ad Al Gore
fu ribaltato
all'improvviso,
compiici,
pare, il fratello
del futuro
presidente,
governatore
dello Stato,
e altri membri
del suo staff,
coinvolti
nello spoglio
dei voti),
Fahrenheit
rivela presto
una certa
faciloneria
a effetto
che i film
precedenti
non avevano:
una voce off
di troppo
(nella scena
della scuola,
che sarebbe
stata efficacissima
se silenziosa),
un eccesso
di didascalismo
populistico,
una vena di
moralismo
ricattatorio,
una sgradevole
strumentalizzazione
del dolore.
Siamo convinti
che dica delle
sacrosante
verità,
ma le dice
con un tono
e un taglio
spettacolare
che non sono
più
quelli limpidi
dei film precedenti.
Finisce per
essere un
film ondivago,
dove l'asserzione
di moralità
del contenuto
non corrisponde
a quella del
linguaggio.
(di Emanuela
Martini
- Film
TV)