DANNY THE DOG
 

danny the dog recensione

 
Prodotto e specchio fedele della società in cui ci troviamo (costretti) a (sopra)vivere; o perlomeno a provarci. Questo è Danny the dog. Secondo lungometraggio per Louis Letterrier, allievo prediletto di Luc Besson, a cui è da attribuire la paternità della sceneggiatura e la cui presenza si fa viva, ma non certo invadente, in ogni grigio antro della melanconica Glasgow, palcoscenico che fa da sfondo alla narrazione. Grazie all’assemblaggio di un cast esperto nei singoli ma fresco di amalgama, nel quale convivono a braccetto la dirompente elasticità di Jet Li, per la prima volta decisamente più introspettiva, la monumentale statuaria di un santone quale Freeman e la crudeltà fumettistica di Bob Hoskins e grazie all’uso di una regia che, ponendo i propri basamenti su una fotografia lucida e un utilizzo noir della luce, suddi-  
 
vide il plot in tante piccole microsequenze, il risultato è sostanzialmente buono e mirato. Il film arriva là dove sembra voglia andare a parare e lo fa non senza l’utilizzo continuo di meccanismi ambigui, atti a condurre lo spettatore verso lo straniamento più esasperato. Da film d’azione e combattimento, a dramma, a noir, di nuovo all’azione per chiudere con un lieto fine: ecco l’intuizione difficile, ma in buona parte riuscita, della coppia Besson-Letterier. Ma cos’è in sostanza 'Danny the dog'? Storia di un giovane ragazzo, allevato sin dalla tenera età di quattro anni da uno strozzino, che ne fa il suo cane da guardia in senso letterale, della sua rinascita interiore grazie all’incontro con un accordatore di pianoforti non-vedente e delle conseguenze che la musica provoca sulla sua esistenza, riesumando il passato fatto morire con un lavaggio di cervello capace di cancellare emozioni e sentimenti. Danny è una storia di amore e di integrazione; una fotografia dell’ideale familiare e degli strazi che il suo disfacimento può provocare nel corso dell’esistenza. Ma è anche storia di un incontro con l’altro che, una volta presoci per mano, si rivela essere un’altra faccia di quell’io che siamo (ritornati ad essere?). Danny è anche l’emblema della lotta. Un combattimento che si sfaccetta in due direzioni dissimili. Da una parte la cruda violenza degli impulsi travisati e dall’altra la battaglia per preservare se stessi, la propria famiglia, il proprio mondo che, con tanta fatica, è venuto a galla dall’oscurità degli abissi in cui era stato incatenato. Danny è, infine, la manifestazione estrema dei mostri che la società è capace di generare, alienando l’essenza pura dell’esistere che, tuttavia, con il tenace ausilio dell’amore di e per qualcosa/qualcuno (musica/famiglia), può trovare il modo di spezzare il collare dell’oppressione.

(di Marco Visigalli)

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