Torna a farsi sentire,
dopo quasi cinque
anni di silenzio,
uno dei padri spirituali
della nobilitazione
del genere horror,
con un film, Cursed
- Il maleficio, che
rispecchia in toto,
per l’ennesima
volta, il già
noto bagaglio stilistico
del regista a cui
spetta la paternità
di quel Freddy Kruger,
incubo perdurante
della nostra fanciullezza.
Firmato a quattro
mani con lo sceneggiatore
Kevin Williamson,
già autore
di Scream e Scream
2, e prodotto da Marianne
Maddalena, vedasi
la trilogia mascherata,
Cursed è un
pastiche senza eccessive
pretese di tutta la
produzione filmica
precedente del regista
che, con qualche rimpianto,
sembra essersi standardizzata
su di un’asfissiante
ripetitività.
La storia narra i
cambiamenti che interessano
la vita di due sfortunati
giovani, Ellie e Jimmy,
una volta imbattutisi
in uno strano incidente
autostradale e i mostruosi
ac-
cadimenti,
con
tanto
di maleficio,
che
l’incontro
ravvicinato
di un
licantropo,
vendicativo
ed omicida,
provoca
nella
loro
già
movimentata
quotidianità.
Risolto
con
un finale
enigmatico
e ricco
d’innumerevoli
colpi
di scena,
il film,
intriso
di un
forte
citazionismo,
vuole
essere
anche
un sentito
omaggio
al cinema
Universal
degli
anni
trenta
e quaranta
in cui
erano
i vari
Lon
Chaney
(di
cui
vi è
un sentito
ossequio
sotto
forma
di
bastone
del cinquantenario
di The Wolf
Man) e Bela
Lugosi i protagonisti
incontrastati
della scena
orrorifica.
Tornando al
presente,
invece, la
pellicola
di Craven,
impreziosita
da un cast
giovane, capitanato
dalla sempre
splendida
Christina
Ricci (Ellie),
è una
perfetta summa
di tutti i
cliché
ricorrenti
nelle sue
produzioni
anteriori.
Vi sono il
consueto utilizzo
dello “spettacolo
nello spettacolo”,
già
presente in
Scream, l’utilizzo
di una colonna
sonora post-rock,
l’umorismo
nero, un maniacale
utilizzo dei
colpi di scena,
il doppio
finale straniante,
l’evocazione
di leggende
e superstizioni
metropolitane,
la tematica
del sogno
(non è
un caso che
il motore
di tutto sia
una certa
Mulholland
Drive), l’utilizzo
claustrofobico
degli specchi
e soprattutto
una forte
morale intrinseca,
ma astutamente
permeata da
una sinossi
all’apparenza
ambigua, secondo
cui “i
mostri”
si celano
nelle certezze
a noi più
solide (e
scontate).
Quello che
resta, quindi,
di questo
nuovo prodotto
di Craven
sono la sua
geniale capacità
di dirci tutto
(e bene) attraverso
una maniera
(soltanto)
apparentemente
banale e l’ennesima
ricognizione
del concetto
secondo cui
vale la pena
combattere
le proprie
paure ed esaminare
con attenzione
chirurgica
cosa si cela
a tergo dell’esteriorità
più
innocente.
“Quello
che non ti
uccide ti
rende più
forte”
recita il
cartellone:
tanto vero
quanto (già)
assodato.