Una stagione nella vita
di una dellecompagnie
di danza più famose
del mondo, il Jeffrey
Ballet di Chicago,
che mescola tradizione e
classicismo e sfida sulle
punte gli incubi della modernità
(c'è persino una
coreografia su musiche di
Angelo Badalamenti e David
Lynch). Una giovane attrice,
Neve Campbell, che prima
di passare al cinema ha
studiato danza classica
ed è stata ballerina
e che da tempo pò
voleva fare un film sul
mondo del balletto (infatti
è anche produttrice
di The Company). Una sceneggiatrice,
Barbara Turner, che per
due anni si è immersa
insieme alla Campbell nell'universo
del Joffrey Ballet, intorno
alla scena e fuori, mescolandosi
alla vita dei ballerini.Alla
fine, è sbucato il
regista al quale le due
autrici della storia
avevano continuato ad ispirarsi:
Robert Altman, il genio
dei microcosmi, capace di
sguinzagliare la sua macchina
da presa
in
un insieme
umano e di
coglierne
rivalità
e attrazioni,
delusioni
e aspettative.
Il risultato
è un
film bizzarro:
più
che un film,
The Company
sembra la
prova generale
di un film,
dove la "scena"
fagocita il
"fuoriscena",
trasforma
la fatica
e i conflitti
in leggerezza
e coralità,
ribalta in
coreografica
perfezione
le stridenti
imperfezioni
della vita
privata. Durante
le giornate
di prove ed
esercizi e
durante le
serate, spesso
solitarie
e sfinite,
dei ballerini
la
macchina da presadi
Altman
affonda con la consueta
fluidità nei
volti, nei piedi massacrati,
negli sguardi stizziti
o preoccupati, nei
muscoli e nelle articolazioni
dolenti; si serve
del suo zoom proverbiale,
del sovraffollamento
amplificato dalle
pareti a specchio
e del consueto "overlapping
dialogue" per
sottolineare i personaggi
e le loro dinamiche,
per farci intuire
le storie individuali
che stanno dietro
la costruzione di
ogni spettacolo. In
dettaglio si sofferma
solo sulla storia
d'amore tra la protagonista
Rye e Josh, l'unico
non ballerino del
film, che fa l'aiuto
cuoco in un ristorante,
e sul dirompente ego
del direttore della
compagnia.Vedendo
The Company,
si avrebbe voglia
di scoprire di più,
di un canovaccio alla
Nashville o alla Kansas
City, che tirasse
in primo piano i caratteri
e,attraverso questi,
un'idea del mondo.
Ma Altman (che in
realtà è
tutt'altro che tenero,
e fa balenare durezze,cinismo
e tradimenti) sembra
concentrato soprattutto
sulla "macchina",
affascinato dallo
spirito di squadra
che, alla fine, supera
contraddizione e crea
la meraviglia che
vediamo sul palcoscenico.
Quasi un documentario,
hanno detto; dove
la ripetizione ossessiva
di My Funny Valentine,
in quattro versioni
differenti (ricordate
"The Long Goodbye",
ci ricorda sottovoce
che fuori c'è
la vita vera e malconcia.
(Emanuela
Martini - Film TV)