Le vie della perdizione
percorrono i territori
della debolezza umana,
talvolta disperdendosi
nei vicoli chiusi
e maledetti delle
droghe e dell’alcool,
in qualche caso intrecciandosi
invece con gli itinerari
della solitudine e
del tormento personale.
L’uomo rivolge
il proprio sguardo
alle diverse forme
in cui maschera la
propria vita, secondo
i gradi del talento
puro o secondo le
ristrettezze e i bisogni
della povertà
materiale: in questa
conflittualità
si è posta
la vita di Amedeo
Modigliani, pittore
livornese, artista
maudit, icona della
genialità espressiva
e della continua ricerca
dell’ideale
assoluto di bellezza.
Se lo scenario è
quello di soffitte
polverose e sporche,
tra topi in cerca
di cibo e vetri di
finestre rotte, all’interno
degli edifici fatiscenti
di Montparnasse, il
cielo è quello
di una Parigi dei
primi del novecento,
una Parigi forse minore
e
spesso
raffigurata
a tinte
scolorite;
ma sotto
questo
cielo
batte
forte
il cuore
di questo
maestro
della
pittura,
artista
isolato
rispetto
alle
correnti
e alle
avanguardie
dell’epoca,
solitario
nella
sua
testarda
e folle
ricognizione
dei
limiti
dell’umano
e nel
desiderio
di tradurre
le sue
emozioni
in linee
e volumi
capaci
di prendere
vita
solo
nelle
sue
tele.
La sua
esaltazione
della
figura
umana
trova
realizzazione
suprema
nel
volto
del-
l'amata
Jeanne Hebutherne,
musa della
sua arte e
compagna della
sua vita;
l’amore,
forse nella
sua veste
meno lucida
e nelle sue
pieghe meno
belle, raggiunge
però
tutta la purezza
del sentimento
in questo
rapporto intensissimo
che sacrifica
al resto anche
una figlia
piccola, la
rivalità
con il grande
Picasso, la
disperazione
di un’esistenza
che non viene
riscattata
dalla grandezza
del genio
pittorico.
La sregolatezza
del canone
bohémien
non può
soddisfare
le aspirazioni
di una vita
fatta di sofferenze
intime e di
dolori lancinanti,
di rovina
e di meschinità
morale: anche
se la scena
della competizione
pittorica
svoltasi al
Salon des
Artistes,
quando la
tela in concorso
di Modì
mostra finalmente
gli occhi
disegnati
dell’amata
Jeanne, al
di là
di ricostruzioni
romanzate
o di tele
riprodotte
in maniera
arbitraria,
regala sensazioni
molto forti,
verso una
sorta di compartecipazione
e di pietà
per questa
umana miseria
incarnata
dalla vicenda
dell’artista
livornese.
E questo è
probabilmente
il merito
maggiore del
film di Mick
Davis, l’essere
riuscito a
raccontare
una storia
di un calvario
e di un travaglio
esistenziale
senza tregua,
fatti di eccessi
e di droghe,
ma visti appunto
dalla prospettiva
della follia
e del malessere
del protagonista,
la cui irrequietezza
ha trovato
pace solo
quando è
riuscito a
tingere i
propri dipinti
con i colori
dell’anima
della sua
dolce Jeanne.