Retorico, ridondante,
prolisso, eccessivo,
improbabile. Ma sincero
ed entusiasmante,
a modo suo. Coach
Carter è una
storia vera: Ken Carter,
cestista dotato fisicamente
e intellettualmente
(prima scelta del
suo liceo e laureato
alla Mason University)
è un carismatico
e discusso allenatore
che porta ad un incredibile
serie di successi
la squadra di Richmond,
da sempre cenerentola
dei tornei liceali
nazionali. Non soddisfatto,
però, il 4
gennaio del 1999 opera
una scelta coraggiosa
ed incosciente. Lascia
in panchina l’intera
squadra per i pessimi
risultati scolastici,
impugnando il contratto
che aveva fatto firmare
ai suoi ragazzi ad
inizio stagione. Patto
che prevedeva impegno
sui banchi di scuola,
sotto canestro e rispetto
per gli altri e per
se stessi. Un po’
come se Fabio Capello,
avvertito dalla Cepu
dello scarso rendimento
di
Alessandro
Del
Piero,
lo mettesse
fuori
rosa.
Impensabile.
Ma assolutamente
vero.
Ed è
qui
che
il film
diventa
vero
ed entusiasmante.
Perché
ha la
capacità
di solleticare
il lato
infantile
degli
appassionati
di sport,
da sempre
affascinati
dalla
sua
elementare
e sana
retorica
che
va dal
gioco
di squadra
alla
crescita
personale
passando
per
l’irresistibile
etica
del
sacrificio
al fine
di raggiungere
una
meta
importante
e fortemente
desiderata.
Perché
ha il coraggio
di raccontare
anche una
sconfitta.
Perché
vuole essere
sfacciatamente
educativo
e didascalico
e non fa nulla
per nasconderlo.
Non a caso
il simpatico
e tenace Thomas
Carter (l’omonimia
con il coach
è puramente
casuale) è
il regista
di 'Save the
Last Dance'.
Stessa mano
dietro la
macchina da
presa, stessa
sensibilità
per una musicalità
moderna e
commerciale,
stessa ingenuità
nel raccontare
una realtà
sicuramente
stereotipata
ma comunque
presente nella
società
che il suo
occhio osserva.
I difetti
del film esistono
e sono evidenti.
Un’ingenuità
di fondo che
ci racconta
un vero duro
come Ken Carter,
nella realtà
molto più
violento,
nei panni
di un Samuel
L. Jackson
troppo politicamente
corretto.
Un dramma
sociale e
umano dei
componenti
della squadra
che rimane
sempre troppo
sullo sfondo
e analizzato
superficialmente.
Ci viene raccontata,
inoltre, con
verve epica
la storia
di giovani
sbandati che
vengono troppo
facilmente
illuminati
da un professore
estremo, ma
mai estremista.
Ragazzi che
smettono di
cadere in
pericolose
tentazioni
con la stessa
facilità
con cui non
sbagliano
più
un tiro. I
nostri Richmond
Oilers, da
Carter in
poi, infatti,
non toccano
neanche più
il ferro.
C’è,
infine, un
troppo pretenzioso
ammiccamento
a “L’attimo
fuggente”
(già
fin troppo
ammiccante
per conto
suo). Ma in
un film sportivo
ed educativo,
nel classico
schema hollywoodiano
del campo
di gioco come
arena della
vita, tutto
questo è
più
che sopportabile.
Soprattutto
alla luce
del fatto
che un simpatico
pazzo che
ha anteposto
la maturità
morale e intellettuale
dei suoi ragazzi
alle vittorie
sportive è
esistito veramente.
Una curiosità:
il film uscirà
in pochissime
copie. Perché
una major
non crede
affatto ad
un prodotto
discreto e
di sicuro
impatto commerciale?
E soprattutto
perché
la suddetta
major non
investe sul
mercato italiano
quello che
dilapida oscurando
lungometraggi
più
o meno validi?
Ma forse,
in questo
caso, il critico
si pone certe
domande solo
perché
influenzato
dal clima
ingenuo, entusiasta
e politicamente
corretto del
film appena
visto.