delle
riprese. Il
quartetto
d’attori
ha perciò
goduto di
un esclusivo
periodo di
interazione,
durante il
quale essi
han potuto
accrescere
e migliorare
i personaggi,
scolpendoseli
addosso andando
a sfruttare
la condizione
di reciproco
confronto
e supervisionati
in questo
dallo stesso
regista. Il
film restituisce
di Londra,
dove è
ambientato,
una immagine
d’interno
sobriamente
dettagliata;
luoghi pubblici,
scenografie
e abbigliamento
son correlati
direttamente
agli incontri
e alla caratterizzazione
dei personaggi,
dei quali
riferiscono
con accorta
naturalezza
psicologie
e sviluppi.
Anche la scansione
del tempo,
che cade a
incastro per
macrosequenze
indipendenti,
è sensibilmente
gestita tramite
l’uso
degli elementi
scenici. Certe
modifiche
scenografiche
sono predisposte
e organizzate
per riferire
dei mutamenti
dell’intreccio
a partire
dal comportamento
dei personaggi,
in funzione
della loro
progressiva
interazione,
tra adeguamenti,
smacchi e
rivincite.
E’ soprattutto
l’atelier
di Julia Roberts,
vissuto come
appartamento
e luogo di
lavoro che
vediamo trasformarsi,
adeguandosi
alle situazioni
come diretta
emanazione
della condizione
interiore
del personaggio
di Anna. Ancora,
stesso obbiettivo
è raggiunto
dall’appartamento
camera da
letto-soggiorno
con tanti
libri-cucina
di Dan, l’immaturo
e un po’
frignone scrittore
impersonato
da Jude Law.
Nonostante
un controllo
così
coerente e
dei vari elementi
e del loro
tessuto, è
la scrittura
del film che
non convince
circa la sua
costruzione:
essa è
tutta affidata
alla performance
e al giuoco
dei ruoli
e del testo,
in diversi
momenti sono
le stesse
battute a
lasciare sbigottiti,
ci si aspetta
un climax
esilarante
e di svolta,
ma si assiste
a una irruenza
confinata
tra il banale
e il mellifluo.
In altri passaggi
è addirittura
la direzione
della recitazione
a stonare:
almeno una
volta tutti
e quattro
gli attori
si rivelano
inappaganti
o fuori contesto,
non offrono
nulla di vero
né
di costruito,
semplicemente
nulla di fatto.
La narrazione
scorre sotto
i nostri occhi
ma nulla avviene
sotto pelle
anzi, si è
costretti
a correggere
la nostra
impressione
con imbarazzo,
reprimendo
di volta in
volta un vago
senso di esasperazione.
Quella che
dovrebbe essere
una black
comedy e che
in partenza
fa ben sperare
di coinvolgerci
in modo scoppiettante,
si assesta
senza riprese
su un tono
monocorde
dagli effluvi
sprecati.
Natalie Portman
– Alice
risente meno
di queste
defaillances,
è un
po’
pedina, un
po’
vittima delle
mosse altrui
nella economia
dell’intreccio,
appare come
immatura e
sognatrice
rispetto agli
altri tre,
personaggi
apparentemente
più
adulti nonostante
siano delineati
dai propri
difetti, tutti
individuabili
nelle rispettive
aspettative
e certezze
sulla vita.
Tutti si riveleranno
spietati giocatori
nel contesto
della sfera
affettiva.
Il carattere
di Alice,
tagliente
ma candido,
integro e
insidioso,
rivela la
sua complessità
nell’essere
la più
risoluta nelle
proprie scelte,
prende decisioni
che ne preservano
l’identità,
pur agendo
secondo un
significato
effimero di
libertà.
Julia Roberts
cade in un
maelstrom
di banalità
e sciacqueria,
nel complesso
il suo personaggio
si lascia
adombrare
dagli altri
e durante
il film se
ne perde l’interesse.
Clive Owen
– Larry,
il personaggio
che in qualche
modo dà
nerbo al corso
del film (in
ogni suo intervento
la sua esuberanza
ci investe
coi suoi dictat,
in fatto di
psicologia
sopraffina)
decade appollaiandosi
nel giusto
ridicolo di
una posizione
che non evolve
di molto dalle
verità
che, alla
lunga, noiosamente
declama in
difesa o in
attacco. Di
fatto nessuno
dei quattro
caratteri
risulterà
arricchito
dal confronto
raccontatoci,
subendo una
involuzione,
un arrocco
sulla propria
sostanza.
In particolare
chiude il
film la camminata
in ralenti
di Alice,
tra la folla,
che la mostra
finalmente
cresciuta,
adulta e finalmente
in grado di
sostenere
un nuovo “ring”
degli affetti
a un più
alto livello
di gioco.
Dispiace davvero
che su un
soggetto così
furbescamente
originale
gravi uno
svolgimento
in fin dei
conti - ma
soprattutto
per l’intero
secondo tempo
- lasciato
al caso, privo
di reale discernimento
drammatico
e di quel
dosaggio necessario
a imprimere
mordente e
acidità
davvero coinvolgenti
a tutti quegli
ingredienti
umorali i
cui effluvi
purtroppo
affogano solo
l’interesse
e l’aspettativa
dello spettatore
più
sagace. E’
mai possibile
dover ritenere
questo deludente
risultato
imputabile
largamente
a una erronea
direzione
del doppiaggio
italiano?
(di Marco
Raduini) |