CLOSER
 

- Recensione -

 
Adattato in sceneggiatura dallo stesso autore della acclamata e pluri-premiata piece teatrale omonima e diretto dal veterano Mike Nichols, specialista in commedie drammatiche, Closer di Patrick Marber è un dramma intricato sull’amore, il sesso, l’orgoglio maschile, la risolutezza o la (in)costanza femminili. Racconta delle relazioni e degli incontri di un rampante quartetto di personaggi-tipo concepiti con profili psicologici il cui massimo comun denominatore è costituito dalla naturale probabilità di esser messi in competizione, e la vicenda è articolata in modo da ottenerne una netta contrapposizione. Del loro intricato rapporto il testo si propone di mettere in scena esclusivamente quegli eventi generalmente in larga parte taciuti da un soggetto normale perché ritenuti intimi e poco consoni per essere elabo-  
 
rati-trasformati in azione. La commedia - si avverte in toto dalla strutturazione del film - è e rimane cosa teatrale più che cinematografica, soprattutto per l’imbarazzo e lo scandalo delle sensazioni che il teatro dal vivo può garantire, più che la visione nella buia sala di un cinema. Il lavoro con gli attori ha seguito un iter speciale, avendo la produzione permesso si esercitassero nella parte per circa un mese, prima dell'inizio  
delle riprese. Il quartetto d’attori ha perciò goduto di un esclusivo periodo di interazione, durante il quale essi han potuto accrescere e migliorare i personaggi, scolpendoseli addosso andando a sfruttare la condizione di reciproco confronto e supervisionati in questo dallo stesso regista. Il film restituisce di Londra, dove è ambientato, una immagine d’interno sobriamente dettagliata; luoghi pubblici, scenografie e abbigliamento son correlati direttamente agli incontri e alla caratterizzazione dei personaggi, dei quali riferiscono con accorta naturalezza psicologie e sviluppi. Anche la scansione del tempo, che cade a incastro per macrosequenze indipendenti, è sensibilmente gestita tramite l’uso degli elementi scenici. Certe modifiche scenografiche sono predisposte e organizzate per riferire dei mutamenti dell’intreccio a partire dal comportamento dei personaggi, in funzione della loro progressiva interazione, tra adeguamenti, smacchi e rivincite. E’ soprattutto l’atelier di Julia Roberts, vissuto come appartamento e luogo di lavoro che vediamo trasformarsi, adeguandosi alle situazioni come diretta emanazione della condizione interiore del personaggio di Anna. Ancora, stesso obbiettivo è raggiunto dall’appartamento camera da letto-soggiorno con tanti libri-cucina di Dan, l’immaturo e un po’ frignone scrittore impersonato da Jude Law. Nonostante un controllo così coerente e dei vari elementi e del loro tessuto, è la scrittura del film che non convince circa la sua costruzione: essa è tutta affidata alla performance e al giuoco dei ruoli e del testo, in diversi momenti sono le stesse battute a lasciare sbigottiti, ci si aspetta un climax esilarante e di svolta, ma si assiste a una irruenza confinata tra il banale e il mellifluo. In altri passaggi è addirittura la direzione della recitazione a stonare: almeno una volta tutti e quattro gli attori si rivelano inappaganti o fuori contesto, non offrono nulla di vero né di costruito, semplicemente nulla di fatto. La narrazione scorre sotto i nostri occhi ma nulla avviene sotto pelle anzi, si è costretti a correggere la nostra impressione con imbarazzo, reprimendo di volta in volta un vago senso di esasperazione. Quella che dovrebbe essere una black comedy e che in partenza fa ben sperare di coinvolgerci in modo scoppiettante, si assesta senza riprese su un tono monocorde dagli effluvi sprecati. Natalie Portman – Alice risente meno di queste defaillances, è un po’ pedina, un po’ vittima delle mosse altrui nella economia dell’intreccio, appare come immatura e sognatrice rispetto agli altri tre, personaggi apparentemente più adulti nonostante siano delineati dai propri difetti, tutti individuabili nelle rispettive aspettative e certezze sulla vita. Tutti si riveleranno spietati giocatori nel contesto della sfera affettiva. Il carattere di Alice, tagliente ma candido, integro e insidioso, rivela la sua complessità nell’essere la più risoluta nelle proprie scelte, prende decisioni che ne preservano l’identità, pur agendo secondo un significato effimero di libertà. Julia Roberts cade in un maelstrom di banalità e sciacqueria, nel complesso il suo personaggio si lascia adombrare dagli altri e durante il film se ne perde l’interesse. Clive Owen – Larry, il personaggio che in qualche modo dà nerbo al corso del film (in ogni suo intervento la sua esuberanza ci investe coi suoi dictat, in fatto di psicologia sopraffina) decade appollaiandosi nel giusto ridicolo di una posizione che non evolve di molto dalle verità che, alla lunga, noiosamente declama in difesa o in attacco. Di fatto nessuno dei quattro caratteri risulterà arricchito dal confronto raccontatoci, subendo una involuzione, un arrocco sulla propria sostanza. In particolare chiude il film la camminata in ralenti di Alice, tra la folla, che la mostra finalmente cresciuta, adulta e finalmente in grado di sostenere un nuovo “ring” degli affetti a un più alto livello di gioco. Dispiace davvero che su un soggetto così furbescamente originale gravi uno svolgimento in fin dei conti - ma soprattutto per l’intero secondo tempo - lasciato al caso, privo di reale discernimento drammatico e di quel dosaggio necessario a imprimere mordente e acidità davvero coinvolgenti a tutti quegli ingredienti umorali i cui effluvi purtroppo affogano solo l’interesse e l’aspettativa dello spettatore più sagace. E’ mai possibile dover ritenere questo deludente risultato imputabile largamente a una erronea direzione del doppiaggio italiano? (di Marco Raduini)
 
 
   
 

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