LA FABBRICA DI CIOCCOLATO
 

la fabbrica di cioccolato recensione

 
Non è sbagliato sperare. È assai rischioso viziare. Non è neppure peccato amare. Questa la morale in soldoni del soggetto di Roald Dahl che conosce la sua seconda trasposizione su pellicola, a più di trent’anni dalla prima. Tuttavia dietro ad un quadro d’apparente semplicità si nasconde un mondo che la genialità di Burton ed il trasformismo funambolico di Depp hanno portato a galla con imprevedibile pazzia ed un pizzico di sadismo. Aprendo la porta della fabbrica entriamo in un universo fantastico e reale. Questa dicotomia caratterizza tutto il plot narrativo lasciando lo spettatore sospeso tra le proprie paure quotidiane e rari attimi d’amor proprio che è in grado (o ha tempo) di concedersi. L’ambientazione ne è il monito principe. Tra industrie e cascate di cioccolato, tra vetrine sfavillanti e ponti di caramello si snoda il cammino  
  dei nostri protagonisti. Essi altro non sono che l’incarnazione dei vizi e dei capricci. Padri e Figli di una società saccente e convinta di poter offrire tutto, trascurando con noncuranza i valori sani dell’esistenza. Ecco che sopra le parti si erge Willy Wonka. Enigmatica figura di diabolico burattinaio; Divino Inquisitore che con sorridente spietatezza riesce a smascherare (senza la certezza di poter guarire) vezzi radicati di una società malata. Come? Grazie all’esperienza vissuta di un’infanzia frustrata. Il percorso nella fabbrica di cioccolato è un cammino purificatore. Una sorta di Via Crucis interiore. La propria Passione. Tutti devono farci i conti. Nessuno ne è esente. Neppure lo stesso Wonka, alla ricerca di un erede ma soprattutto di una famiglia che non ha mai avuto. Unica ginestra è il piccolo Charlie, vera anima candida e pura. Artifici di questo complesso quadro sono la retoricità ed il citazioni-  
 
smo che ne scaturiscono. Metafore Dantesche ed allegorie Leopardiane s’incastrano a meraviglia. La casa in cui vivono Charlie e la sua numerosa famiglia sembra uscita dal Caligari o dal primissimo Pabst. L’espressionismo che essa promana si rincorre tra pareti distorte e comignoli fumanti per giungere alla fabbrica di cioccolato; babelica effige del gerarchico caos di Metropolis. Fosse tutto qua. L’universo di Burton scorre in rapida sequenza  
 
 
Beatles e Stones, passando per Kubrick. L’omaggio al cineasta non è un Award alla carriera ma la ri-funzionalizzazione tematica in una contesto storico tanto differente da quello di allora, quanto angosciosamente identico. Ma, una volta sbalzati fuori dall’ascensore e giunti all’epilogo di questo lungo viaggio.. (continua)
 
 
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