All’inizio dei
tempi, Dio aveva dato
al cammello un paio
di corna meravigliose;
e siccome il cammello
era molto buono, quando
il cervo venne a chiederle
in prestito non seppe
negargliele. Ma il
cervo non tornò:
da allora, il cammello
guarda sempre all’orizzonte,
nella speranza di
vederlo ricomparire.
Con questa meravigliosa
leggenda si apre il
documentario narrativo,
per utilizzare una
definizione che si
avvicini il più
possibile alla scelta
stilistica della pellicola,
del duo Byambausuren-Falorni;
e per tutta la durata
del film non si può
fare a meno di leggere,
nello sguardo assorto
dell’animale,
l’attesa. Una
famiglia nomade nel
deserto del Gobi vive
allevando cammelli;
uno di essi, dopo
un parto difficile,
rifiuta il cucciolo
e l’avvicinamento
sarà possibile
solo alla fine, attraverso
la musica e le lacrime
di entrambi (da cui
il titolo del film).
La
storia
si sviluppa
nell’alternanza
fra
interno/esterno
con
un breve
inserto
al di
fuori
della
comunità,
lontano,
in un
mondo
già
toccato
dalla
‘civiltà’,
dalla
televisione
e dai
videogame:
l’interno
è
quello
della
capanna,
stretto
ed angusto
ma costruito
negli
accostamenti
dei
colori
e delle
geometrie
da sembrare
un Matisse:
prevalgono
le tinte
forti
e piene,
che
riempiono
l’immagine,
che
fuoriesco-
no
dalla piattezza
dello schermo.
Di contro,
gli esterni
sono quasi
tutti campi
medi o lunghi,
le campiture
dei colori
più
tenui ma mai
scialbe; all’occhio,
questa volta,
è permesso
di entrare
nello schermo,
attraversare
le sabbie
del deserto
fino a raggiungere
la lontana
linea dell’orizzonte.
Gli attori,
o meglio i
protagonisti
della pellicola,
non recitano;
semplicemente
esistono,
nella loro
verità,
nei loro rituali,
e la macchina
da presa cerca
di coglierne
la solidità
dei gesti,
dei movimenti,
la concretezza
degli sguardi,
il loro essere
corpo davanti
all’obiettivo.
Non c’è
differenza
tra loro e
gli animali
nella naturalezza
e nella spontaneità
dei loro modi.
I dialoghi
hanno rilevanza
minima; i
rumori, il
canto, il
pianto straziante
del cammello,
il vento e
il silenzio
stesso saturano
le immagini
fin quasi
a immobilizzarle,
rendendole
cosi statuarie
nella loro
immota bellezza;
immagini di
cui si sente
il peso, che
non scorrono
via facilmente.
È la
macchina da
presa che,
con le sue
inquadrature,
racconta la
separazione
della mamma
dal cucciolo,
ad esempio,
in un’inquadratura
che li colloca
su diagonali
opposte, lontani,
ognuno sulla
sua duna,
ognuno col
suo lamento.
Nonostante
le sezioni
statiche siano
decisamente
più
numerose di
quelle cinetiche
il film non
risulta lento;
non c’è
niente di
più
né
niente di
meno di quello
che dovrebbe
esserci e
la pellicola
risulta meticolosamente
cesellata
in ogni particolare.
La poesia,
il silenzio
e il colore
orientali
sposati con
l’eccelsa
fotografia
e la narratività
italiana hanno
dato vita
a quest’opera,
che ha portato
in parte i
colori della
nostra bandiera
agli Oscar
del 2005.