Potere, arte e decadenza.
Il capolavoro Mephisto,
l’intenso Colonnello
Redl e Hanussen trattarono
in un’impegnativa
trilogia questo rapporto
perverso e affascinante.
Uno Szabò 67enne,
da sempre alfiere
del cinema magiaro
ed europeo più
coraggioso e politico,
decide, grazie ad
una proposta del suo
produttore, di regalarsi
un film diverso. Un
dramma borghese, un’elegante
commedia sofisticata.
Dove si parla di potere,
di arte e di decadenza.
Appunto. Ma non sono
Hitler o Stalin l’atroce
sfondo su cui si gioca
la trama del film.
E’ un’altra
forma di dittatura
che qui viene combattuta.
Quella dell’età,
della decadenza, fisica
e artistica. E la
risposta è
appunto il potere
di una prepotente
femminilità,
di una donna incosciente,
coraggiosa, straordinariamente
dotata. Annette Bening
è Julia Lambert,
attrice di meri-
tata
fama
che
si avvicina
ai quarant’anni
e vive
una
forte
crisi
esistenziale
che
pensa
di risolvere
gettandosi
con
incredibile
intensità
tra
le braccia
di un
giovane
americano
adorante.
L’attende
una
caduta
precipitosa
e dolorosa
dalla
quale
si riprenderà
con
una
forza
che
non
sospettava
di avere
ed una
fatica
che
mai
avrebbe
pensato
di poter
sostenere.
Raccontato
così
il film,
tratto
dal
romanzo
di William
Somerset
Maugham
"La
Diva
Julia",
appare come
un feilleuton
poco originale
e scontato.
Infatti lo
è.
E rappresenta
la forza di
questo film.
Una certa
ingenuità,
spesso voluta,
altre volte
figlia di
una certa
inesperienza
nel genere,
porta avanti
il film per
tutta una
prima parte
sfacciatamente
eccessiva
e in qualche
modo fastidiosa.
Sommerso da
passioni ed
espressioni
troppo forti
e teatrali
lo spettatore
sale sul palcoscenico
senza accorgersene
e da dietro
le quinte
comincia a
vedere un
ben congegnato
gioco d’arte,
tra cinema
e teatro.
Si rimane
affascinati
dalla capacità
del regista
ungherese
di rientrare
nel film con
grande forza
e intensità,
svelare il
motivo per
cui, con sfrontata
ma calcolata
incoscienza,
ci ha tanto
irritato inizialmente.
Solo per il
gusto di sorprenderci
nella seconda.
Allora Annette
Bening, in
una delle
sue interpretazioni
migliori,
diventa davvero
Julia Lambert
ed è
lei che, dopo
non aver esitato
a esporsi
nella sua
fisicità
non più
perfetta,
torna bellissima
e piena del
talento che
le (ri)conosciamo.
E accanto
a lei Istvàn
Szabò
non è
altri che
il suo mentore,
quel fantasma
indisponente
e privo di
tatto, magistralmente
interpretato
da Michael
Gambon, attore
e caratterista
davvero eccelso.
Raramente
un film che
sicuramente
ha divertito
tutti gli
attori e il
regista nell’interpretarlo
sa essere
contemporaneamente
così
piacevole
e avvincente
per lo spettatore.
Recentemente
aveva tentato
questa strada
"Stage
beauty",
riuscendo
ad essere
solo leziosamente
barocco. L’arte
come metafora
di fragilità,
ambizione,
genialità.
Condito da
complicità
mai banali,
quali quelle
tra Julia
e i suoi platonici
affetti, soprattutto
maschili,
dal marito,
un gioiso
Jeremy Irons,
a chi, pur
molto affascinante
e affascinato
dalla nostra
diva, “gioca
per l’altra
squadra”,
per finire
a un rapporto
con il figlio
forse troppo
stilizzato
ma ben reso
e recitato.
Un’operazione
rischiosa
e sorprendente,
insomma, una
divertente
sfida per
il grande
regista e
autore magiaro.
Partita che
ha giocato
pensando allo
spettacolo
più
che al risultato.
E che, alla
fine, ha saputo
vincere. L'unico
grave errore,
come purtroppo
spesso accade,
riguarda il
doppiaggio
italiano.
Troppo ingombrante
Mariangela
Melato come
voce di Annette
Bening. Quasi
mai riesce
davvero a
mettersi al
servizio dell’attrice,
restituendole
la sua voce
originale,
profonda e
sensuale,
ma più
delicata e
varia.