E’ difficile
esprimere un giudizio
sul film di Alexander
Aja. Parte come un
ottimo horror e sfocia
in una conclusione
assurda e del tutto
incoerente. La vicenda
di Marie e Alex, due
studentesse che si
ritirano in campagna
a studiare e diventano
le vittime predestinate
di un assassino dalla
ferocia inaudita,
intriga immediatamente
lo spettatore, nonostante
la trama semplice
e canonica. Anzi,
grazie a questa. Uno
schema così
scarno (luogo isolato
e angosciante, poche
persone riunite in
un posto chiuso, arrivo
dell’estraneo
che irrompe nella
quotidianità
e semina la distruzione),
ha il pregio di far
leva sulle paure ancestrali
che si nascondono
in ogni essere umano:
come nelle fiabe,
sono sempre le storie
più semplici,
i meccanismi già
noti, a tenere desta
l’attenzione
di chi ascolta o guarda,
e a spaventare.
Perché
riescono
a far
scoccare
quella
scintilla
di puro
terrore.
Scintilla
che
nasce
da quello
che
Jung
chiama,
con
pregnante
e sintetica
definizione,
“l’inconscio
collettivo”.
Il giovane
regista
sembra
esserne
ben
consapevole
e costruisce
una
suspense
pesante
e palpabile,
appoggiandosi
a pochi
elementi:
il casolare
in campagna,
la famiglia
riunita,
le due
amiche,
una
notte
che
tutto
avvolge,
un mostro
che
arriva
dal
nulla, dal
buio, come
l’Uomo
Nero, e dai
nostri incubi,
senza perché,
senza identità,
che uccide
e tortura
con brutalità
animalesca.
La fotografia
e i magnifici
effetti sonori
contribuiscono
a creare un’atmosfera
da pelle d’oca,
in cui il
panico vero
e proprio
si arricchisce
delle sfumature
dell’inquietudine
e dall’angoscia,
e anche le
scene più
splatter e
violente si
inseriscono
perfettamente
nel quadro.
Settanta minuti
in cui finalmente
ci si sente
dinanzi a
un horror
efficace ed
essenziale,
non innovativo
ma di attenta
fattura, giocato
su toni cupi
e allucinati,
che a tratti
ricordano
la cruda follia
del vecchio
indimenticabile
“Non
aprite quella
porta”.
Gli ultimi
quindici minuti
incrinano
l’opera.
Il desiderio
del regista
di dare un
colpo di scena
finale che
stupisca a
tutti i costi,
ha sì
l’effetto
di spiazzare
lo spettatore,
ma allo stesso
tempo rovina
il quadro,
un po’
perché
sa veramente
troppo di
déjà
vu con il
suo giocare
con la risorsa
della schizofrenia
('Psyco' docet.
Per non parlare
di 'Identity'
di Mangold)
e un po’
perché
è troppo,
troppo rabberciato
all’ultimo
momento e
soprattutto
insopportabilmente
sleale. Sì,
sleale. Le
scene iniziali
sono presentate
in modo da
far sì
che chi guarda
il film pensi
all’esistenza
di un certo
personaggio,
per poi negarla
alla conclusione.
Questo è
giocare sporco.
E solo un
genio del
giallo come
Agatha Christie
può
permettersi
di farlo,
e uscirne
a testa alta,
come nel libro
'L’Assassinio'
di Roger Ackroyd…
in cui il
punto di vista
fuorviante
influenza
il lettore
in modo simile
a quanto accade
guardando
Alta Tensione.
Ma senza deludere,
diversamente
dal film di
Aja.