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Ci
voleva un videogame
(di cui non
so nulla essendo
io rimasto a
Double Dragon
in fatto di
videogiochi,
quando non ci
voleva una consolle
ma un bar ed
una moneta da
duecento lire
– e modestamente
con duecento
lire io Double
Dragon lo finivo!)
per far resuscitare
Christian Slater
dal limbo degli
obliati. E il
nostro, canottiera
nera e cappotto
svolazzante
(ci si chiede
che razza di
clima ci può
essere in un
posto in cui
si va in giro
abbigliati in
quel modo),
ci prova pure
a calarsi nei
panni del detective
del paranormale,
inquieto e fascinoso
come troppi
ne abbiamo visti,
finendo però
col collezionare
solo una serie
infinita di
desueti clichè.
Non contenti
dell’attore
protagonista
gli affiancano
anche Stephen
Dorff, il quale,
in fatto di
attori-bufale,
non scherza
per niente.
Tra Tra i due
s’instaura
un’evidente
competizione
ma- |
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Qualcuno
di voi ha forse
avuto la sfortuna
di visionare
l’inguardabile
movie-game 'House
of the dead',
distribuito
nelle sale cinematografiche
nostrane nell’estate
del 2004? Il
regista Uwe
Boll, responsabile,
tra l’altro,
anche del thriller
'Sanctimony'
(2000), da noi
uscito direttamente
in dvd, non
pago di aver
devastato su
celluloide il
noto videogioco
zombesco, ci
riprova curando
la trasposizione
di 'Alone in
the dark', primo
titolo che,
ancor prima
del pluriosannato
'Resident evil',
applicò
al proprio game
play un contesto
horror. La pellicola
vede protagonista
Christian Slater
nei panni dell’investigatore
del soprannaturale
Edward Carnby,
il quale, ventidue
anni dopo la
misteriosa scomparsa
di alcuni bambini,
si ritrova,
insieme all’archeologa
Aline Cedrac,
con il volto
della Tara Reid
dei primi due
'American pie',
nel territorio
di "Shadow |
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schia,
silenziosa ma
palpabile all’interno
di ogni fotogramma,
sul chi porta
meglio la barba
incolta. Dorff,
capello biondo,
lungo e meschato
è senza
dubbio avvantaggiato
e forse è
proprio per
questo che il
finale è
riservato tutto
per lui, mentre
il povero Slater
con quella faccia
lì che
sembra un Paolo
Vallesi malinconico
e triste, non
può nulla
contro il ben
più aitante
rivale. La trama,
tanto farraginosa
e improbabile
da poter essere
ideata solo
da qualcuno
in preda a incubi
notturni dovuti
ad un pasto
eccessivamente
pesante, presenta
al suo interno
di tutto e di
più:
Indiana Jones,
X-files, Pitch
Black, Alien,
creature della
notte, zombi,
antiche maledizioni,
mondi paralleli,
civiltà
scomparse, orfanotrofi
sinistri e tutta
quell’inutile
sbobba col mostro
che si palesa
nel finale.
S’intuisce
il tentativo
di mantenere
fede allo spirito
del gioco ma
se si decide
di fare un film
allora bisogna
tenere presente
che le logiche
cui rispondere
sono un tantino
diverse rispetto
a quelle di
un videogioco,
tipo che se
il secondo non
necessita di
una trama il
primo purtroppo
sì, e
che lo sparare
all’impazzata
contro ogni
genere di mostro
non può
definirsi “trama”.
Diretto da Uwe
Boll, già
autore di “House
of the dead”,
il film si compone
quasi esclusivamente
di scene madri.
Ma il clou si
raggiunge quando
Christian Slater
entra in casa,
si toglie il
giaccone, lo
butta per terra,
si toglie la
canotta rimanendo
a torso nudo
che neanche
Costantino,
si sfila la
pistola, si
slaccia la cintura,
si getta sul
letto sussurrando
tra sé
e sé
“sono
stanco”,
“sono
stanco”.
Non ci vengono
risparmiati
neppure lui
e lei che fanno
l’amore
su “7
seconds”
di Youssun ‘Door.
E così
tra sequenze
indimenticabili,
dialoghi d’antologia
(lui a lei “ho
dovuto uccidere
John, era uno
di loro, lo
controllavano.
Lei a lui: “allora
non hai avuto
scelta”),
creature soprannaturali
che s’arrendono
davanti ad una
porta chiusa
(neppure a chiave),
vecchi curatori
di musei che
tengono imprigionato
nel loro ufficio
un mostro bavoso
per arpionarlo
di tanto in
tanto e iniettarsi
nelle vene il
suo sangue (è
tutto vero!),
nel più
assoluto caos
stilistico e
semantico, il
film si avvia
a candidarsi
come uno dei
più grossi
“scult”
degli ultimi
tempi, da recuperare
doverosamente
negli anni a
venire.
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Island',
per recuperare
tre antiche
tavolette dall’immenso
potere, tra
scontri con
mostruose creature
alla Alien e
rozze sequenze
d’azione,
alcune delle
quali caratterizzate
da una forzata
ricerca del
virtuosismo
tecnico a tutti
i costi che,
in un certo
senso, rispecchia
proprio la “frenetica”
cultura dei
videogiochi.
Prima di assistere
a tutto questo,
però,
veniamo messi
al corrente
del fatto che
l’archeologo
Lionel Hudgens,
specializzato
in ricerche
paranormali,
effettuò
studi sugli
Abkani, antica
civiltà
americana convinta
che sulla Terra
ci fossero due
mondi, uno fatto
di luce ed uno
di oscurità,
tra i quali,
10000 anni fa,
aprirono un
cancello che
non riuscirono
a richiudere
prima che qualcosa
di malvagio
riuscisse ad
attraversarlo.
Ma Boll sembra
non smentirsi
mai, costruendo
(???) un lungometraggio
terribilmente
soporifero e
che non regala
nulla di memorabile,
tra movimenti
di macchina
estremamente
lenti che sembrano
stati realizzati
appositamente
per colmare
circa cento
minuti di pellicola
e la voce fuori
campo di Carnby,
la quale, in
stile detective-story
vecchia maniera,
risulta soltanto
ridicola e non
fa altro che
rendere ancora
più noiosa
la vicenda,
man mano che
subentrano altri
personaggi,
tra cui l’agente
del governo
Richard Burke,
interpretato
da quello Stephen
Dorff che abbiamo
visto su diversi
set della paura,
da 'Non aprite
quel cancello'
(1987) a 'Paura.com'
(2002). Che
dire, 'Alone
in the dark',
fino all’ultima
inquadratura,
si presenta
soltanto come
un banale e
pessimo prodotto,
vivamente consigliato
a chi soffre
d’insonnia,
dai ritmi troppo
televisivi perfino
per il piccolo
schermo e, purtroppo,
neppure infarcito
della comicità
involontaria
che aveva caratterizzato
'House of the
dead'. Alla
larga!
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