ALFIE
 

recensione alfie

 
Alfie è giovane, bello, vive a New York e non passa mai una notte da solo. Modelle ultra sexy dalle gambe chilometriche, ricche donne d’affari spregiudicate, mogli annoiate di miliardari dall’agenda troppo piena. Lui può averle tutte ai sui piedi accennando un semplice sorriso, strizzando l’occhio, alzando un sopracciglio. Cosa può volere di più un uomo dalla vita? Ma l’amore ovviamente! Dopo averci istruito con dovizia di particolari sui vantaggi della vita da single, sradicato e disimpegnato, la morale è che nessun uomo è un isola (già sentita? Anch’io!). E questa non è che una delle innumerevoli ovvietà inanellate consecutivamente da Alfie, remake diretto da Charles Shyer (Il padre della sposa 1 e 2) del film omonimo del ‘66. Citiamo in ordine sparso: matrimonio tomba dell’amore, l’aspetto fisico conta ma non è tutto,  
 
il momento triste della vigilia di Natale per chi non ha nessuno con cui festeggiare, l’accorgersi dell’importanza di una persona solo dopo che la si è persa, tutti che hanno bisogno di un amico su cui fare affidamento, per raggiunger l’apoteosi nel momento in cui si concretizza verbalmente l’antica formula per cui non si capisce perché se un uomo ha molte donne è un figo mentre se una donna ha molti uomini è  
una zoccola. È come l’avverarsi del peggiore dei presentimenti, al punto che quasi non ci si vuole credere: nemmeno dalle partecipanti di Miss Italia si sono sentite tante banalità declamate con un tale autocompiacimento esistenziale. Jude Law che ha sostituito (degnamente) il Michael Caine che fu, mattatore solitario della pellicola, parla e parla, ammicca e seduce, colloquia e commenta con noi, dritto verso la telecamera, dà fondo a tutto il suo repertorio di smorfie e sguardi, conquista, lascia e poi ci ripensa, amoreggia incontrollato, si ammala, guarisce ma non rinsavisce, teorizza, pontifica, soliloquia attraverso la voce off sulla stravaganza delle relazioni amorose, semina vento e raccoglie tempesta, di spada ferisce e di spada perisce, si confida con un vecchio incontrato in un bagno d’ospedale, il tutto senza che il suo personaggio riesca a compiere la benché minima evoluzione dall’inizio del film. Dopo i primi venti minuti si comincia a guardare l’orologio; dopo i secondi si comincia a sperare che la fine giunga, almeno per ascoltare Mick Jagger e Dave Stewart cantare Old habits die hard; alla fine la domanda che si è fatta largo tra le peripezie erotico-sentimentali di Alfie è solo una: chi se ne frega?

(di Mirko Nottoli)
 
 
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